La perdita della forma come l’Altro.

 

Renato Calligaro

 

 

Quando, dopo otto anni vissuti in Brasile, sono tornato in Italia sulle colline del Friuli, per molto tempo non sono riuscito a sentire la campagna come Natura, come la Grande Madre che aveva mitizzato la mia vita in America Latina. Sentivo il Friuli, nonostante la sua varietà di pianure e colline e montagne, come un insignificante e sgualcito giardino pubblico. Avevo perso la Natura come l’Altro.

Poi lentamente ho “rimesso a fuoco” il piccolo troppo “umano” Friuli nella mia immagine del mondo, in un compromesso in cui nonostante tutto ho ridato in parte a questa terra la dimensione mitica che aveva per me in origine. E ciò prova quanto sia soggettiva l’esperienza estetica della realtà (estetica, e non artistica, che è tutt’altra cosa). E quanto sia importante la capacità dell’uomo di estetizzare gli oggetti della realtà, di suscitare, rievocare, richiamare, sentire negli oggetti l’Altro, che è nascosto dalla “ragionevolezza” della esperienza nella routine quotidiana. Dove il mondo si usa ma non si contempla.

Dunque la campagna era piccola, estenuata dalla misura dell’uomo. Tutto era umano, oppressivamente umano. Non c’era più l’Altro: cioè la Natura come mistero, come origine e destino, come Grande Madre o dimora degli dei, come ciò che è smisurato e infinito, là dove l’uomo finisce. C’era invece l’angoscia dell’uomo che “è la misura di tutte le cose”. Senza più quell’Altro dalla ragione che ha sempre invece dato a lui la misura e l’identità.

 

Da quando a Protagora, greco del V° secolo avanti Cristo, venne in mente di dire che l’uomo è la “misura di tutte le cose”, l’uomo occidentale non ha resistito alla tentazione di farsi misura matematica dell’essere. Ignorando di rischiare la propria integrità psichica, in quanto essere veramente la “misura di tutte le cose” è l’inferno del nichilismo e del relativismo.

Perché, quando l’uomo dice questo, essere lui la “misura di tutte le cose”, è la sua ragione che dice questo. Dunque è solo questa parte dell’uomo, che è la ragione, a proclamarsi il tutto, la misura di tutto. Da strumento per l’uomo la ragione diventa dunque fine a se stessa, e il mondo dovrà sottostare ad essa, essere misurato da essa. Sarà allora come se la luce della ragione illuminasse un cerchio di scena e perciostesso cancellasse nella penombra ciò che sta ai margini. “La ragione -dice Kant, quando ormai nel ‘700 la modernità è ben conscia dei pericoli- vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno...”. Così, l’uomo del razionalismo occidentale vede solo ciò che lui stesso illumina per usarlo, e lo vede solo nel colore della sua luce razionale: misurabilmente, matematicamente, scientificamente, tecnicamente. Con ciò occulta e distrugge ciò che sta al di là di questa luce. Egli si chiude nel cerchio di luce della ragione, che diventa la sua prigione, in quanto gli è impedito di vedere oltre, di sentire l’Altro dalla ragione, cioè il non-razionale come l’irriducibile ai concetti e regole con cui la ragione spiega il mondo: in altre parole ciò che non si può spiegare, ma solo sentire. Cioè l’origine, la specie, la divinità, l’ignoto, l’inconscio, l’angelo, l’amore, il dolore, la follia, il corpo, la malattia, il destino, la morte. E il diverso, il mistero della donna per l’uomo e il mistero dell’uomo per la donna. E il bene, il giusto, il bello. E la creatività, e l’esteticità, e l’artisticità.

 

In altre parole quest’uomo perde “le differenze”: ciò che è differente da ciò che sa. Che è ciò che non sa, che è da scoprire, per cui la vita è una scoperta, un’avventura, un senso da inventare, e così si attribuisce un valore. E che la ragione tende, inesorabilmente quanto necessariamente, a normalizzare, a rendere insignificante, a distruggere. Ma che è anche ciò che l’uomo continua a riproporre a se stesso, altrettanto necessariamente, mitizzando ogni cosa, inventando eroi del West e del calcio e della televisione. Sempre mitizzando, in certe epoche e in mancanza di meglio, persino la stupidità.

Per cui oggi l’uomo occidentale razionalizzato e stanco, quasi incapace ormai di vivere il mito, vive di miti. E come spettatore di miti si abbandona al grembo della tecnica come al grembo materno. Si tratta di quella estetizzazione di ogni banalità quotidiana, la femminilizzazione dell’Occidente nel grembo della nuova Grande Madre, la tecnica, che lo divorerà, come negli antichissimi miti la Grande Madre ancestrale divorava l’“adolescente-fiore”, fuco dell’ape regina, dopo essere stata fecondata.

Ma al di là della estetizzazione c’è l’artista, c’è sempre stato l’artista, a proporre invece l’avventura dell’arte. Cioè l’esperienza della “bellezza”, della compiutezza e riuscita della forma, come specchio di sé in cui riconoscersi, in cui esaltare la propria identità. Un desiderio di sé, un desiderio dell’Altro, il Desiderio tout court.

 

A tutto ciò Protagora ha lanciato la sfida. Ha detto ad alta voce ciò che ogni saggio aveva sempre saputo, ma taciuto, ben sapendo che l’uomo non può sopportare la solitudine che dalla perdita dell’Altro deriva. Egli non può vivere se non accompagna alla sua esuberante intelligenza relativizzante la parallela continua invenzione e salvaguardia dell’Altro, se non trascende la propria coscienza razionale uscendo dalla prigione del Logos in quell’Altro che è incommensurabile, non misurabile, e per questo è chiamato inconscio, o divinità o trascendenza.

Si intende qui per trascendenza non certo un Dio che ha fatto il mondo e l’uomo, oppure uno Spirito Assoluto fuori dalla storia o costituito dalla stessa storia nel suo farsi, ma una esperienza che l’uomo ha fatto (e continua a fare), e ha poi razionalizzato, ad un certo punto dello sviluppo della coscienza dell’Io, e ha chiamato “divinità”.

Quando, nella spaventata sua solitudine di animale, e poi nell’angoscia del divenire e della morte, e nel caos delle soggettività e nello smarrimento del relativismo esistenziale, l’uomo riesce a sentire e riconoscere una comunanza nella sua differenza dagli altri, a concepire un denominatore comune delle esperienze di tutti, a inventare una entità che è un in più perché è a tutti comune, egli sta istituendo una entità che trascende il singolo e accomuna tutti, una trascendenza, una divinità che anzitutto si sente e sfugge a ogni misurazione nel tempo e nello spazio: questa costante/trascendenza/divinità è Altro dalla ragione. Ma la ragione giustamente se ne appropria per farne uno strumeto di autodifesa.1

 

Ora, proclamare che l’uomo è la “misura di tutte le cose”, vuol dire aver deciso di misurare anche l’Altro, e pertanto distruggerlo.

Così, quando ad un certo punto di questa avventura, l’uomo occidentale ha inventato la scienza moderna, ogni Altro ha cominciato lentamente a dissolversi. E questa è la solitudine dell’Occidente, senza l’Altro.

 

Come ogni organismo vivente in natura, l’uomo ha una sua evoluzione. L’homo sapiens sapiens, che siamo noi, non è il punto di arrivo di questa evoluzione, è solo uno stadio dello sviluppo della coscienza dell’Io (a meno che non si ipotizzi la sua creazione così com’è da parte di un Dio che sta fuori dalla natura). L’homo sapiens sapiens, che dura da 30/40.000 anni (l’homo sapiens ne ha circa 200.000) è “un nuovo tipo d’uomo, con una capacità di accumulazione di informazioni molto superiore ai suoi predecessori, con un periodo d’infanzia più prolungato, con un particolare insieme di dati somatici, ma sopratutto, con capacità cerebrali molto particolari che gli hanno dato nuova dimensione emotiva, una insaziabile esigenza di sapere e di capire, e nuova disposizione di comunicare con il prossimo e con la natura2. E’ sua prerogativa l’interazione tra pensiero simbolico (dell’intuizione e del sentimento) e pensiero razionale (del calcolo e della logica). Il pensiero simbolico non deve essere definito irrazionale in senso negativo: “Uso questo concetto non nel senso di antirazionale, ma in quello di extrarazionale ossia di ciò che non può essere fondato sulla ragione”(C. G. Jung). “La funzione umana dei simboli non è infatti di carattere teorico e conoscitivo, come quella dei concetti, che portano a conferire senso alle realtà intramondane, che le investono cioè del loro valore d’uso. Ma è quella di conferire valore al soggetto stesso che le vive [corsivo mio] come fondamento esistenziale nel suo esistere come tale. Se i concetti danno valore agli oggetti conosciuti, in funzione della loro utilità per i soggetti, i simboli danno senso e valore ai soggetti stessi, riempiono di senso la loro esistenza in quanto soggetti”.3 Il pensiero razionale ci spiega le cose e l’uso che ne possiamo fare, in una esperienza quantitativa utilitaria, ma non ci fa sentire il valore e il senso che le cose che usiamo hanno per noi, e quindi il nostro stesso valore, per noi e per gli altri. Questo valore e senso lo troviamo nel pensiero simbolico.

Così, quando il Friuli viene estetizzato dal mio pensiero simbolico, e non è più solo un luogo “strumento” per abitare nell’ambito del “domestico utilizzabile” (De Martino) con solo un valore d’uso, esso acquista un altro senso e valore che conferisce anche a me soggetto che lo vive un ulteriore valore, un incremento di identità. Avviene una “destorificazione” (De Martino), per cui l’entità Friuli si trascende e completa la sua dimensione storica del “domestico utilizzabile” in una dimensione simbolica transtorica e transculturale (per esempio diventa “la mia terra”). Questo trascendere nell’Altro, è il superarsi del soggetto dalla dimensione dell’avere alla dimensione dell’essere.

 

Fra le differenti culture che l’homo sapiens sapiens ha prodotto, la nostra cultura occidentale, che dura da solo 2500 anni, si è caratterizzata per la propensione a privilegiare il pensiero razionale. Essa ha origine nella cultura greca, proprio in quella proposizione di Protagora che dice essere l’uomo la “misura di tutte le cose”. E’ infatti proprio per difendersi dalle possibili devastazioni nichilistiche e relativistiche che quella proposizione comporta, che Socrate e Platone e Aristotele hanno inventato la “filosofia”, in cui avverrà la reificazione della ragione, cioè la sua trasformazione da mezzo (per la soddisfazione dei bisogni umani) a fine , come assoluto che subordina a sé ogni altra cosa. Da strumento per l’uomo, si trasformerà in fondamento, in sostanza, in metafisica.4 Finché con Cartesio, nella modernità, questa razionalità del pensiero razionale giunge a identificarsi con la ragione matematica, che include anche Dio, fino a renderlo superfluo.

Nelle altre culture la verità ultima rimane invece oggetto di fede in un Altro dalla razionalità, che appartiene al pensiero simbolico. Nella cultura giudaico/cristiana (e in quella musulmana) la verità ultima è “impersonata” da un solo Dio, che privilegia l’uomo “a sua immagine e somiglianza”, subordinando la natura al servizio della umana salvezza. Per cui l’uomo tende a questa salvezza ultima, per meritare la quale deve migliorare se stesso.

 

L’incontro di questo mito escatologico5 con la cultura greco/romana introduce in questa l’idea della storia come processo irreversibile di miglioramento della condizione umana,  una teleologia6 che nella razionalità laica diventa teoria del progresso, che ha come fine ultimo l’Utopia. Nella desacralizzazione la “redenzione” diventa “liberazione”. Si inventa così la “Storia”, un tempo lineare e cumulativo di miglioramenti, che ha un suo senso, come significato e come direzione verso una meta (tempo che non è più “tragico”/senza senso, come in altre culture). Per cui tutto ciò che avverrà, sarà giudicato relativamente a questa Storia, al suo progredire.

 

Da parte sua il Cristianesimo, a contatto con la razionalità greca, riduce l’Altro (dalla razionalità) a “male”, riservando a Dio tutto il bene, e si secolarizza riducendo la religione a amministrazione delle sofferenze umane in attesa della salvezza. Ha così separato questo Altro come male, ne ha fatto il diavolo da tenere lontano dalla vita, assecondando con ciò l’egemonia del razionalismo, dove il diavolo diventa l’irrazionale, come pre-razionale che impedisce il processo razionale di salvezza affidato alla Scienza e alla Tecnica.

 

Questo razionalismo vincente rifiuta la dimensione “tragica” della vita, senza salvezza, che era dei padri greci, e, non riuscendo a liberarsi dall'ansia cristiana della salvezza, trasferisce questa possibilità di salvezza nella vita terrena, nella razionalità della scienza e del suo progresso, e nella produzione di oggetti adatti a quel fine.

Così, l’uomo “centro del mondo” dell’Umanesimo pensa di progettare con l’uso della ragione il proprio futuro, all’insegna della perfettibilità dell’uomo: in questo è l'inventore della Filosofia della Storia, dell'Idea di Progresso e quindi della Modernità. L’idea di progresso implica che si producano situazioni sempre nuove, oggetti sempre nuovi, più progrediti: nella Modernità il “nuovo” diventa il valore (è meglio) e rimpiazza il “vero”.

 

Ma la successiva frattura tra la religione e la scienza, il declino dell’Altro nell’Illuminismo (dell’uomo come valore) e nel Cristianesimo (di Dio come valore), ha portato l’uomo allo scetticismo e al nichilismo, cioè a essere veramente, e non solo a parole, la “misura di tutte le cose”: e l’Altro che dava all’uomo la misura, e che aveva avuto un trasalimento di fortuna nel Romanticismo, è stato definitivamente declassato dal positivismo scientifico di fine ‘800 a pensiero arretrato, degno solo dei “selvaggi, dei bambini, delle donne, dei pazzi e degli artisti”.7

 

Dunque in questo forte razionalismo tutto tende a essere Storia, senza un Altro che sia al di fuori della Storia, perché è la Storia, cioè l’uomo razionale che ha inventato la Storia, la sola “misura di tutte le cose”. E se l’uomo muta la sua condizione secondo il tempo e secondo le culture nella Storia, se tutte le cose si fanno nella Storia, esse “non sono quello che sono”, ma sono quello che l’uomo ne fa nella Storia, si modificano nella Storia. E progredendo, possono diventare un’altra cosa. Così, se una macchina che corre sulle strade, denominata automobile, progredisce al punto da poter anche volare, come un aeroplano, sarà una nuova macchina. Si troverà senz’altro una nuova denominazione per la nuova macchina, poiché tutti sanno che la prima è un’automobile e la seconda è un aeroplano,

Ma può anche succedere che una cosa usata da qualcuno in un certo momento come “X”, muti (progredisca) nel tempo fino a diventare “X-1”, o anche diventare un’altra cosa “Y”, pur conservando la sua denominazione iniziale “X”, a discrezione di qualcun’altro. Ora, questo è possibile soltanto perché fin da principio quel primo qualcuno non sapeva veramente cosa la cosa “X” fosse, e tanto meno lo sa ora il secondo qualcuno. Ed è ciò che succede con la cosa “arte”.

 

Nessuno ha mai saputo veramente, secondo ragione, cosa essa sia. Nessuno ha mai dato una definizione di arte, che potesse essere applicata come denominatore comune a tutte le operazioni estetiche: a quelle operazioni cioè che appartengono a ciò che noi definiamo oggi arte come istituzione.8 Per il fatto che quelle operazioni sembrano troppo eterogenee per sopportare una denominazione comune. Tanto che Wittgenstein indica il termine “arte” fra quelli che si basano “su somiglianze di famiglie”, e altri lo considerano un “concetto aperto”. In breve, nell’ambito della Storia, cioè della filosofia occidentale, l’arte è qualcosa che non si riesce a definire.

 

L’esito obbligato di questa deriva relativistica non può che essere la proposizione (in una teoria procedurale o istituzionale dell’arte) che dice: “é arte ciò che gli uomini (che hanno il potere di farlo e di imporlo) chiamano arte”.

Un singolo uomo è la misura dell’arte, e non è più l’arte una operazione universale su cui il singolo uomo si misura.

 

Ma come può una cosa come l’operazione arte, che indubbiamente esiste, che tutti hanno sempre riconosciuta, non essere oggettivamente definibile? E’ un problema di approccio. Se in un approccio nell’ambito della razionalità della Storia, dove tutto è relativo, non c’è un denominatore comune che possa essere universale, transtorico e trasculturale, si tratta allora di oltrepassare la dimensione della Storia nell’Altro, nel territorio del pensiero simbolico. Perché se nella Storia tutto è mutevole, al di là ci sono invece le costanti (pulsioni psichiche o volontà inconsce) che sono universali e innate, in quella “eternità antropologica” dell’homo sapiens sapiens, che è la durata di quest’uomo fino alla futura mutazione in un altro ominide.

Queste costanti sono tali in quanto costitutive di uno stadio dello sviluppo della coscienza dell’Io, che è indicato come sistema homo sapiens sapiens. Questo sistema è omeostatico, tende cioè a mantenere, a conservare il proprio equilibrio di organismo, e quindi le costanti, fino ad una eventuale rottura dell’equilibrio che lo precipiti in un altro sistema (mutazione antropologica in un altro ominide). In altre parole, anche le costanti, istanze innate e inconsce, possono evolvere, ma per quel poco che non mette in pericolo l’equilibrio. In questo caso, si può o ristabilire l’equilibrio (processo omeostatico) o può avvenire la rottura (processo antiomeostatico), che però equivale, per i temi che stiamo trattando, a un precipitare nella mutazione in un nuovo essere post-umano, con bisogni fondamentali diversi dai nostri, e per il quale i problemi che stiamo trattando non avranno alcun senso.

Non si può cedere infatti alla superficialità di certa fantascienza che ipotizza “mostri”, uomini tecnologici o altro, che però hanno una psiche come la nostra, si innamorano, hanno paura della morte, desiderano e odiano, ecc., come noi. Essi agiranno come noi, solo finché le costanti saranno le stesse. E saranno le stesse fino e non oltre la mutazione: cioè per tutta la durata in cui saranno vissute come “eterne”. E cioè fuori dalla Storia.

 

Sono anzitutto da riconoscere nel pensiero simbolico, come costanti universali di tutta l’umanità, transtoriche e transculturali, le tre dimensioni di ogni cultura: l’etica, la magia/religione, e l’arte. Già esse dimostrano che il pensiero simbolico, pur essendo più arcaico di quello razionale, non è affatto un pensiero arretrato rispetto a questo, come affermato da certe concezioni storicistiche, secondo le quali la razionalità è un progresso rispetto a una negativa irrazionalità.

 

Ma sono molte le “cose” che al di là delle loro differenze relative hanno un denominatore comune universale, e in questo sono costanti, con la stessa prima qualità per tutti. E sono pertanto facoltà innate, geneticamente determinate.

Ci sono facoltà fisiologiche: nascere, crescere, vivere, invecchiare, dormire, mangiare, bere, morire ecc. (Natura), ma anche facoltà mentali ("seconda natura"): il processo di individuazione (identità), il pensiero simbolico, il pensiero razionale, il Linguaggio8bis, la Grammatica Universale.9 la riuscita dell’operazione formativa,  il vero, l’utile, il bello, il bene, il giusto; e parlare, informare, comunicare, conoscere, divertirsi, cantare, danzare, giocare, narrare, mentire, socializzare, mitizzare, curiosare, studiare, innamorarsi, odiare, estetizzare, far di conto, ecc.

E formare: cioè dare forma alle cose secondo una funzione oppure secondo una qualità formale.10

Dare forma secondo una qualità formale vuol dire: 1. formare un oggetto in una forma riuscita (artigianato). 2. tras-formare una narrazione, cioè un significato, in una forma riuscita (arte).   

 

Così, rispetto al bello (e al brutto), il differente gusto e apprezzamento di ognuno è mutevole, appartiene alla Storia, mentre la pulsione a sentire il bello/brutto è una costante, è “eterna”, indica un bisogno fondamentale, appartiene all’antropologia, all’Altro.

 

All’interno della Storia l’operazione arte viene considerata per lo più dal punto di vista dell’interlocutore, del pubblico, cioè da un punto di vista sociologico, piuttosto che dal punto di vista dell’autore. Vengono privilegiate le funzioni sociali, l’uso che le società e culture fanno dell’arte, che ovviamente sono mutevoli, possono essere differenti, piuttosto che la funzione prima antropologica, per cui essa è stata inventata come operazione autonoma per soddisfare un bisogno fondamentale dell’uomo (il bisogno di forma e di forma artistica) che è sempre lo stesso.

 

L’operazione “tras-formare un significato in una forma riuscita”, cioè l’operazione “arte”, è dunque anch’essa una delle operazioni universali, transtoriche e transculturali, appartenenti al pensiero simbolico. E’ una operazione inventata dall’uomo molti millenni prima della invenzione della ragione come ordine onto-teo-logico, cioè della invenzione della metafisica filosofica occidentale, cioé della invenzione della Storia. E’ una operazione che non può quindi essere misurata, nel suo essere o non essere artistica, dalla Storia, dall’“uomo misura di tutte le cose” della Storia.

L’arte è una un’operazione che non prescinde affatto dalla ragione, ma dalla ragione come strumento, e non come assoluto: è anzi la più perfetta sintesi di questa ragione strumentale con l’Altro, la più perfetta sintesi tra pensare e sentire. Ma non può sottostare alla misurazione da parte della ragione come assoluto, come ordine onto-teo-logico, come Storia.

 

Infatti l’arte non ha progresso. Non si può dire che un’opera d’arte è meglio di un’altra perché è più nuova, più progredita nel tempo. Mentre nella scienza si può dire che l’opera di Einstein è meglio di quella di Newton perché è più nuova, più progredita in un progresso della scienza, nell’arte non si può dire che l’opera di Picasso è meglio di quella di Giotto perché più nuova, più progredita in un progresso dell’arte. Il “mondo altro” creato dagli artista non progredisce da un artista all’altro, nel tempo, come invece progrediscono le teorie degli scienziati.

Ora, se tutto ciò che sta nella Storia progredisce, e il fare le  opere d’arte non progredisce, vuol dire che la parte sostanziale dell’operazione arte, cioè la forma, non sta nella Storia. Sta nell’Altro. Quando si fa l’esperienza della artisticità di un’opera, si è fuori dalla logica e dalla scienza, fuori dalla Storia. Come si è fuori dalla Storia nell’atto di innamorarsi, di diverstirsi, di odiare, di sentire il bello, ecc., perché non c’è un modo “più nuovo o più vecchio” di innamorarsi, di divertirsi, di odiare, di sentire il bello, ecc.

 

Ciò che invece muta nella Storia è l’altra parte della operazione arte, quella affidata alla ragione, che è il signficato. Ma per rendersi conto di come nel mondo occidentale contemporaneo il significato (della ragione) abbia preso il sopravvento sulla forma (dell’Altro), di come si assista a una perdita dell’Altro come forma, occorre tentare ancora, nonostante lo scetticismo dei filosofi, anzi appunto per questo, nuove definizioni dell’arte, in modo da individuare quel denominatore comune ad alcune opere, che fa di queste “opere d’arte”.11

Io credo che si possa tentare, a patto che si separino rigorosamente i concetti di “estetico” e di“artistico”.

 

 

L’estetico come “concetto aperto” e l’artistico come “concetto chiuso”. 

 

In senso lato estetico è ciò che si sente, dal greco aisthanomai, sentire. L’aisthesis è una sensazione intensissima. Ma l’aisthesis non va confusa con l’ekstasis, l’estasi, dal greco eksistemi, star fuori di sé. Nell’estasi mistica l’uomo è fuori di sé, nel Dio. Nell’aisthesis l’uomo è intensamente se stesso, nella esperienza di un altro da sé che esalta invece la sua  identità.

 

“Concetto chiuso” (o “ristretto”) è un concetto ben definito, opposto al “concetto aperto” e alla “somiglianza di famiglia”.11bis

“Artistico” è un “concetto chiuso”, ed è una parte dell’“estetico”, che è un “concetto aperto”.

L’estetico è un concetto apertissimo, che contiene in sé una infinità di operazioni, conservatrici o rivoluzionarie.

Il “concetto chiuso” di arte e il “concetto aperto” di estetico fanno qui parte di una “Estetica generativa”, che studia l’origine e le funzioni delle operazioni estetiche e artistiche anzitutto da un punto di vista antropologico e psicologico.

Nell’ambito dell’estetico una delle operazioni, la più comune, addirittura banale, è l’esperienza del bello. Ma si fa rientrare erroneamente nella esperienza del bello l’esperienza dell’artistico, che è tutt’altra cosa.

 

Nel “concetto chiuso” di arte, ci sono tre definzioni che si integrano a vicenda. 1. L’opera d’arte è tras-formazione di un significato in una forma riuscita (trasfigurazione, trasmutazione, Verwandlung (Gadamer).12 2. L’opera d’arte è un simbolo sintetico.12bis 3. L’opera d’arte è “tempo fermo”.13

 

Tutti gli oggetti comunicano qualcosa, ma solo le narrazioni narrano (dicono) un significato.

Un oggetto qualsiasi, al di là delle sue funzioni d’uso, non narra, ha solo una forma senza narrazione, e se si tratta di formare questa forma in forma riuscita, si ha un oggetto d’artigianato, di design, decorativo, ecc. Esso può essere interpretato in infinite significazioni, cioè gli si possono conferire infiniti attributi14, ma non comunica un vero significato (un sistema di significati) intenzionale dell’autore.

 

Ben altra cosa è tras-formare in forma riuscita il significato di una narrazione. Solo in una narrazione c’è un significato da poter tras-formare in forma riuscita. Dove non c’è un significato da tras-formare in forma riuscita non si può dare opera d’arte.

L’opera d’arte è dunque sempre narrazione (discorso, testo, in termini semiotici), e in origine non può che essere una narrazione. 

L’opera d’arte è una narrazione, a qualsiasi linguaggio specifico appartenga: musica, pittura, teatro, danza, letteratura, cinema, ecc.

 

Il significato appartiene alla ragione come strumento. E’ la ragione come strumento che istituisce le differenze nell’indifferenziato del pre-razionale, per cui una cosa è questa cosa e non altro, e non è il suo contrario, per il principio di non contraddizione. E’ per merito di questa ragione che la cosa diventa un significato, quel significato e non altro, in quanto c’è un controllo della logica, della ragione come strumento di controllo.

Si tratta allora, nell’arte, di tras-formare il significato originario della narrazione, che appartiene alla ragione, al pensiero razionale, in una forma riuscita, che appartiene al pensiero simbolico.

 

Poiché il significato appartiene alla ragione, e la forma appartiene all’Altro (dalla ragione), l’opera d’arte è la sintesi perfetta (in quanto forma riuscita) di pensiero razionale (ragione come strumento) e pensiero simbolico (l’Altro).

Questa sintesi è operata dall’opera d’arte come simbolo sintetico, che qui si definisce “tempo fermo”.13

 

Nell’opera d’arte, l’Altro è la forma.

Se l’opera estetica può anche non essere produzione di forma15, l’opera artistica è invece costitutivamente produzione di forma riuscita.

La riuscita della forma è il risultato di un processo di formazione con una speciale cura della forma.16

 

Ogni narrazione narra un significato, formato in una certa forma, ma in una narrazione qualsiasi non c’è da parte dell’autore una particolare cura della forma.

Una certa cura della forma invece estetizza la narrazione, facendone una narrazione estetica. Per meglio comunicare, l’autore può infatti avere una cura della forma tale da esaltare il significato, renderlo eccezionale, memorabile, mitico. Fa in questo caso una narrazione estetica, dove impegna la sua creatività nella elaborazione di una forma efficace, in funzione del potenziamento del significato. Ma qui, nonostante la cura della forma, è sempre protagonista dell’operazione la comunicazione del significato, che rimane separato dalla forma. Per esempio, in una allegoria (come la donna con la bilancia che vuol dire giustizia), la forma è separata dal significato: la forma si può infatti cambiare, si può disegnare o scolpire nei più diversi modi da parte dei più diversi autori, ma il significato, che è il protagonista della operazione, non cambia.

Ma nel passaggio dalla narrazione estetica alla narrazione artistica avviene quella rivoluzione, per cui il significato non è più separato dalla forma, ma invece coincide con la forma: qui la forma è il significato, il significato è la forma. Nel processo di formazione di questa narrazione, il significato di origine si trasfigura infatti in una forma, in uno stile-testo unico, che è allora forma e significato insieme. Per cui, a differenza di ciò che accade nella allegoria, nulla si può cambiare della forma senza che cambi il significato (e in questo l’opera d’arte è già un simbolo sostitutivo. Per ciò che ne fa anche e sopratutto un simbolo sintetico, vedi nota 13).

 

La differenza tra narrazione estetica e narrazione artistica è a volte evidentissima, a volte minima. Si possono trarre degli esempi dalla pubblicità, che è il luogo deputato delle narrazioni estetiche, in quanto nella pubblicità il significato (la vendita o promozione di un oggetto) è sempre il protagonista della narrazione.

E’ un classico di decenni fa il manifesto per il “Vermouth Carpano” che si chiama “Punto e Mes”. “Punto e Mes” vuol dire una dose di dolce e mezza dose di amaro. Il manifesto raffigura una sfera con sotto una mezza sfera, in rosso e nero su sfondo bianco, in una immagine mirabile per impatto visivo e rigore compositivo. Qui la differenza è minima.  Quando, dovendo pubblicarla su un quotidiano in bianco e nero, la si ridisegna al tratto, e così si cambia in essa la forma senza che il significato cambi, l’immagine è considerata una allegoria. Ma qualcuno può dire (forse l’autore): “no, se si toglie il colore si distrugge il vero impatto dell’immagine, il suo grande fascino che è nella sua perfezione formale in rosso e nero”. Ecco allora che in questo caso l’immagine viene considerata un simbolo sostitutivo (in quanto nulla può essere cambiato senza che il significato cambi)17 e anche simbolo sintetico, in quanto narrazione artisticamente riuscita13, senz’altro un’opera riuscita nel linguaggio della pittura astratta. Sotto questo secondo aspetto, il significato Carpano (ciò che si sta vendendo) passa in secondo piano. Allora la differenza dipende qui quasi solo dall’approccio, dal tipo di sguardo del fruitore, dal suo modo di incontrare l’opera, dalle sue attese. Dal suo tipo di bisogno, se di significazione o di forma artistica.

La differenza è invece evidentissima nella pubblicità di altri tipi di prodotti, i cui compratori sono considerati meno colti. “Non me la faccia troppo artistica, che mi spaventa le casalinghe” era una vecchia notissima raccomandazione agli autori da parte dei committenti delle immagini pubblicitarie di elettrodomestici. Perchè la “bellezza”, nel senso della riuscita formale, turba, è sentita anche da parte di un pubblico meno colto e può distrarre dal significato/oggetto da vendere (a prescindere dal fatto che una pubblicità sofisticata spaventava, allora, perché faceva pensare che si trattasse di prodotti “per ricchi”).

Ma in ogni caso, quando anche un grande regista crea uno spot pubblicitario per un’automobile, non può dimenticare che il significato “automobile” è prioritario, e che una riuscita artistica della narrazione rischia di mettere in secondo piano il significato automobile.

 

Oggi la pubblicità visiva è il luogo privilegiato per una analisi delle narrazioni estetiche, tuttavia essa si arricchisce sempre di più anche di narrazioni artistiche, in quanto, essendosi persa nelle “arti visive” la narratività, essa viene recuperata nell’ambito della pubblicità e dei fumetti, dove si sono rifugiati molti grandi autori visivi per sfuggire alla inconsistenza della cosidetta Arte con la A maiuscola.

 

Se dunque protagonista della operazione estetica è sempre il significato, nella narrazione artistica invece protagonista è la forma, tanto che la sua riuscita può addirittura disturbare la comunicazione del tema, del significato che era all’origine della narrazione. Infatti ciò che ora anzitutto conta è la riuscita di questa forma. Se l’operazione estetica va anzitutto capita nei suoi significati, l’operazione artistica va anzitutto sentita nelle sue forme.

E mentre l’idea, il messaggio, il significato nella dimensione estetica si consuma, e una volta capito non suscita più interesse e stupore, la forma riuscita dell’opera d’arte non si consuma, ma si sente, e stupisce, anche di più, a ogni frequentazione dell’opera.

 

Ora, il “concetto chiuso” di arte tiene conto e sottolinea questa separazione fra estetico e artistico.

Poiché la dimensione estetica, nonostante la cura della forma, privilegia sempre il significato originario, che, come s’è detto, appartiene più al piano alto della coscienza razionale che al piano profondo dell’inconscio, nella operazione estetica ha più potere la volontà dell’autore, mentre l’operazione artistica è più affidata alla “benevolenza delle muse”, che abitano i luoghi dell’inconscio, dell’Altro. Ne deriva che l’operazione estetica è più mobile, giovane, ludica, spericolata, selvaggia, divertente, trasgressiva, spregiudicata, libertina, periferica, ma anche più facile, irresponsabile, aperta al “nuovo” fino al parossismo del “nuovo per il sempre uguale” delle mode del mercato. Infatti, ormai prigioniera del dominio della tecnica, l’operazione estetica “non può non fare tutto ciò che può fare”.

 

L’operazione artistica invece è difficile, nel senso che la qualità di artisticità è difficile da raggiungere, perché non dipende solo dalla volontà e intelligenza del soggetto autore, ma è affidata a fattori imponderabili, legati alle profondità rischiose dell’inconscio individuale e collettivo.

 

Il “concetto chiuso” di arte si oppone non solo alla concezione relativistica che dice, secondo la teoria procedurale e istituzionale dell’arte, che: “è arte ciò che gli uomini (che hanno il potere di farlo e di imporlo) chiamano arte”, per cui tutto può essere arte; ma si oppone anche al “concetto aperto” di arte, che vuole comprendere in sé anche quelle operazioni che non perseguono la riuscita formale, ma sono comunque creative e che qui sono definite estetiche.

Ed è per questo che, nell’attuale dilagante “accademia estetica” del “nuovo per il sempre uguale” prodotto dal dominio della tecnica, il “concetto chiuso” di arte diventa rivoluzionario.

 

 

Lo stile-testo

 

Tutte le opere (oggetti senza narrazione o narrazioni) che siano il risultato di un processo di formazione, hanno uno “stile”.

La parola “stile” è anch’essa una parola che definisce cose diversissime fra loro, come lo stile di una sedia, lo stile di vita, lo stile di Van Gogh, ecc.. Data questa inadeguatezza del linguaggio, è opportuno usare una nuova parola per definire lo stile esclusivo dell’opera d’arte. Chiamo lo stile dell’opera d’arte stile-testo, in cui è implicito che l’opera d’arte è forma (stile) e narrazione (discorso, testo) insieme.

Gli oggetti formati ma che non sono narrazioni (design, artigianato, decorazione, brani virtuosistici, ecc.) hanno invece solo lo stile.

 

Lo stile-testo si sente immediatamente in una fenomenologia della percezione (mettendo fra parentesi le mediazioni culturali e storiche), e anche si interpreta in una ermeneutica formale (nelle le mediazioni culturali e storiche).

Per esempio, in un quadro che rappresenta una casa, il significato originario della narrazione (il pre-testo) è quella certa casa. Ma nell’opera riuscita dopo il processo di formazione, il vero, nuovo significato non è più quella casa, ma la stilizzazione della casa, nello stile-testo dell’autore.

Questa stilizzazione della casa, questa “nuova casa inventata” dall’autore (il suo “mondo altro”), si sente, in quanto forma. Ma in una ermeneutica formale si può anche interpretare (es: in che cosa è differente la stilizzazione dalla casa originaria? in che cosa consiste, da dove deriva,  questo stile di X, in che cosa è diverso dallo stile di Y, ecc.).

 

Il significato originario della casa reale rappresentata, che non appartiene ancora alla forma,  rimane sullo sfondo, e può anch’esso essere interpretato, ma in una ermeneutica contenutistica.

 

Comunque lo stile-testo è il significato vero della narrazione artisticamente riuscita (opera d’arte), ed è forma. La forma è il significato.

 

Lo stile-testo della narrazione che è l’opera d’arte concerne dunque anzitutto la forma.    

Solo chi in una narrazione tende alla perfezione formale, riesce a crearsi uno stile-testo.

Solo chi è riuscito a crearsi un suo stile-testo, può formare un’opera fino alla sua riuscita artistica. Se l’autore non ha un suo stile-testo, non può rendersi conto di quando la sua opera è riuscita, cioè ha raggiunto la perfezione formale per quell’opera (cioè il momento dove il processo di formazione deve arrestarsi, perché nulla nell’opera deve essere più modificato, essendo perfetta così com’è). La riuscita artistica di un’opera è il risultato di un processo di formazione che è “l’unico modo in cui il da farsi può essere fatto e il modo in cui lo si deve fare.18

 

Dunque lo stile-testo è la prima conditio sine qua non dell’opera d’arte. La seconda è la riuscita dello stile-testo. 

 

Questo stile-testo riuscito è il “mondo altro” creato dall’autore. Solo se riuscito è il “mondo altro”; se il processo di formazione non è riuscito, se l’opera è sbagliata, lo stile-testo non è veramente un “mondo altro”. Perché solo se “va bene così com’è”, nella sua perfezione, e nulla vi può essere aggiunto e corretto, esso è veramente “un mondo altro in concorrenza con la natura”, la quale è sempre “solo così come, è e non è mai da correggere”.

 

Ciò non va preso alla lettera, perché a rigore non c’è nulla al mondo fatto dall’uomo che non possa, magari minimamente, essere corretto. Ma ciò che conta è la pulsione a che sia così, la irresistibile pulsione dell’uomo alla compiuteza e perfezione.

Per cui, nell’opera d’arte, questa perfezione, che comunemente chiamiamo “bellezza”, è in verità l’appagamento del desiderio della perfezione, della bellezza. Appagamento reiterato di un desiderio che perdura.

Lo stile-testo riuscito, il “mondo altro” creato dall’autore, è la forma del desiderio. Desiderio del “mondo altro” che non c’è, desiderio dell’Altro. Desiderio in sé.

La “bellezza” è sublimazione di Eros.

 

Anche se le opere riuscite (opere d’arte) sono poche relativamente alle opere non riuscite e alle opere estetiche, ciò che conta è dunque il desiderio di forma perfetta, la pulsione a perficere che porta all’opera d’arte. A rigore secondo la ragione nulla nella nostra realtà è perfetto, ma ciò che conta è l’esperienza psichica della perfezione, del riuscito, “come se ci fosse”.

 

Lo stile-testo è inconfondibile. E’ unico, riconoscibile, originale e quindi nuovo per ogni autore, da sempre, sebbene in certe epoche l’ideologia tradizionalista imperante abbia combattuto questa originalità inevitabile.

L’ineluttabilità nell’artista di uno stiletesto, insieme alla ineluttabilità della pulsione alla compiutezza e perfezione formale, alla riuscita dell’opera, mostrano che tra un narratore artista e un narratore estetico c’è stato un passaggio sostanziale. Per il narratore estetico non sono ineluttabili né l’uno né l’altra.

 

Si tratta di capire perché l’uomo ha sentito questo bisogno di perfezionare la forma della narrazione, fino al punto in cui la sua prima funzione non è stata più la comunicazione, anche se estetizzata (e perciò più efficace) di un significato, ma la riuscita della forma (che può anche “disturbare” quella comunicazione).

 

Già in quella “concorrenza con la natura” sta una parte della risposta.

Un’altra parte della risposta sta nell’opera d’arte come tempo fermo13.

Una terza parte sta in ciò: la forma è l’Altro.


Nella forma, in questa pulsione alla forma, alla “bellezza”,  che trascende l’individuo ed è comune a tutti (anche se in misura diversa), che fortissimamente si sente insieme agli altri come un innamoramento, ma non si può spiegare, l’uomo inventa una trascendenza, una “divinità”: l’Altro.

 

Se il significato dipende dalla volontà cosciente razionale dell’autore, la riuscita della forma è invece imprevedibile. Questa riuscita non dipende che in piccola parte dalla volontà cosciente dell’autore, ma in grande parte dalla ispirazione, cioè dall’Altro.

Scrive Merleau-Ponty: “Quel che si definisce ispirazione, dovrebbe venir preso alla lettera: c’è realmente inspirazione ed espirazione dell’Essere, respirazione nell’Essere, azione e passione così poco distinguibili che non si sa più chi vede e chi è visto, chi dipinge e chi viene dipinto”.

Infatti non c’è sapienza o furbizia della ragione che possa sostituire nell’autore quel sapersi affidare all’Altro, quell’Altro che lo “conduce per mano” alla riuscita dell’opera. E ciò vale per Dante: “Allora io dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: Donne ch’avete intelletto d’amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento;...” e vale per Rimbaud: “E’ falso dire: io penso. Si dovrebbe dire: Mi si pensa... Io è un’altro”.

 

L’Io, nel processo di formazione dell’opera d’arte, è “condotto per mano dall’Altro”.

 

Se l’esperienza della artisticità è la risposta a un bisogno fondamentale costitutivo dell’homo sapiens sapiens, esso è in gran parte un bisogno inconscio (bisogno di forma). Infatti non tutti hanno di questa esperienza un tale bisogno conscio (bisogno conscio di forma artistica) per cui consapevolmente la cerchino e imparino a farla

Tutti usano l’aritmetica elementare a differenti livelli, e solo pochi la usano a livelli alti, ma nessuno dubita che l’aritmetica elementare sia un bisogno fondamentale universale dell’uomo. Parimenti, tutta l’umanità è sovraccarica di oggetti e narrazioni estetiche e di estetizzazioni “di tutti per tutti” a differenti livelli di formazione, ma pochi fanno esperienza di quell’ulteriore livello di formazione che è l’artisticità. Ciò non impedisce che sia universale e innata la pulsione a ben formare fino alla perfezione, che è alla base della operazione arte  (vedi “cura della forma”).

Dunque, se appartengono alla Storia le interpretazioni dei significati delle differenti opere d’arte, appartiene invece all’Altro il riconoscimento della loro artisticità, e la pulsione all’artistico, a produrre opere d’arte.

 

L’arte è sempre stata una operazione a due piani. C’è il piano storico delle intenzioni significative dell’autore (e quindi della società, della ideologia, delle religioni, delle teorie filosofiche dell’arte, dei precetti accademici, ecc.), che mutano e sono diverse per ogni autore e cultura.

E c’è il piano antropologico di ciò che l’autore veramente fa (quando è artista), al di là, e spesso nonostante, le sue intenzioni consce e le interpretazioni degli storici e filosofi dell’arte. E ciò che veramente fa, ciò che come artista è costretto a fare, è uguale per tutti gli artisti in tutte le epoche e tutte le culture: ed è l’invenzione di un suo stile-testo e il perseguimento della sua riuscita, cioè della riuscita artistica dell’opera. Che è ciò che l’artista non può non perseguire, perché la sua è una speciale pulsione, un bisogno fondamentale dell’uomo.

Per esempio, l’arte pittorica e scultorica è stata considerata per secoli “imitazione della natura” (Aristotele). Ma ciò è “provvisoriamente vero” relativamente a una cultura (greca), sul primo piano della ideologia, della poetica, della teoria filosofica. Non è stato certamente “vero” relativamente alle culture egiziana e africana “primitiva”, che hanno prodotto capolavori assolutamemte stilizzati e non veristi.

In verità, sul piano non storico ma antropologico, sul piano dell’Altro, sul piano sostanziale, né la pittura e né la scultura, né alcuna altra forma della operazione arte, sono mai state “imitazione della natura”, bensì sempre narrazione, invenzione di un “mondo altro” nello stile-testo dell’autore. E ciò nonostante l’ideologia, la poetica dell’autore potesse essere proprio quella della “imitazione della natura”.19

 

 

In un’opera lo stile-testo riuscito si riconosce immediatamente, anche se questo riconoscimento della qualità artistica è una operazione che si impara. I significati possibili invece si interpretano con la mediazione della ragione, in una ermeneutica pressoché infinita. Ma se non c’è affatto bisogno che un’opera sia artisticamente riuscita per suscitare infinite interpretazioni, invece il riconoscimento/esperienza della artisticità è possibile solo nelle opere riuscite.

Infatti riconoscimento e interpretazione sono due cose diverse. Supponiamo due quadri dello stesso autore, due versioni dello stesso soggetto molto simili (come succede spessissimo), ma delle quali una sia riuscita tanto da far parlare di capolavoro, e l’altra sia meno riuscita, o addirittura brutta. Ebbene, ambedue induranno le stesse interpretazioni dei significati, pur nella valutazione artistica differente. Infatti lo stile-testo di quella riuscita non è lo stile-testo dell’altra.

 

In questo incontro tra forma e significato, tra riconoscimento dell’artisticità e interpretazione dei significati, il confine è sfumato. Ma indubbiamente c’è. A un estremo c’è il “ben fatto” artigianale, la forma senza significato, all’altro estremo un preciso significato da formare. Nell’incontro di queste due parti si forma questo “mondo altro” che è lo stile-testo riuscito che è l’opera d’arte. La ragione è inadeguata a spiegare questo incontro, in quanto simbolo sintetico.13 Ma proprio in questo essere contraddizione inconciliabile nel pensiero razionale, che da esso non può essere spiegata, sta il segreto dell’artisticità. “Anzi (e ciò è fondamentale), se l'artisticità fosse cosa che si potesse "in toto" razionalmente spiegare, non esisterebbe neppure, perché non sarebbe stato necessario inventarla come operazione del pensiero simbolico per esprimere qualcosa che il pensiero razionale non riusciva a esprimere, là dove il pensiero razionale non poteva arrivare.”

Come dice Tolstoj: “L’opera di un artista non può essere spiegta. Se l’artista avesse potuto spiegare con parole ciò che desiderava  trasmettere a noi, si sarebbe espresso con parole”.

 

Quello che certamente si sa, è che per entrare in questo “incontro” che è l’opera d’arte, si entra dalla forma: dalla contemplazione della forma (che sia pittorica o letteraria o musicale o altro). E’ entrando dalla forma che si riconosce lo stile-testo, e questa esperienza esistenziale oggettiva immediata della riuscita si espande in infinite interpretazioni sempre più soggettive, sempre più mediate dalla ragione.

E tanto più l’opera è artisticamente riuscita, tanto più appassionatamente si espandono le interpretazione infinite. Appassionatamente, perché è il riconoscimento della artisticità che dà valore.  L’interpretazione, per se stessa, è solo descrittiva, conoscitiva.

 

Il riconoscimento della artisticità, l’esperienza esistenzale della riuscita dell’opera, l’emozione intensa di questa esperienza della forma riuscita (a prescindere da qualsiasi emozione altra presente), appartiene appunto al pensiero simbolico, e in questo ambito i simboli danno senso e valore al soggetto stesso (all’uomo) che vive l’esperienza simbolica. Per questo è così importante l’approccio formale all’opera, perché nell’opera la forma é l’Altro, ed è in questo Altro  nel pensiero simbolico che l’uomo dà valore al mondo e a sé stesso.

 

Tutti sentono la riuscita della forma di un’opera (quando la sentono) nello stesso modo, ma possono interpretare i significati in modi differenti. Perché l’interpretazione è relativa al grado di cultura di ogni interlocutore, alle differenti epoche e culture: appartiene alla Storia, si modifica e si rinnova, progredisce, in quanto come comunicazione pretende di essere sempre nuova, non consumata.

Il riconoscimento/esperienza della riuscita artistica è invece transtorico e tansculturale. Dipende, in definitiva, dalla intensità del bisogno di forma e di forma artistica dell’interlocutore.

 

Ci sono dunque due dimensioni dell’uomo nella esperienza della artisticità delle opere: una storica, che concerne le interpretazioni, e una transtorica (o antropologica) che concerne il riconoscimento della artisticità. Il significato appartiene di più al piano alto della coscienza, al Logos, la forma di più al piano profondo dell’inconscio, all’Eros. 

 

Se l’esperienza dell’opera deve iniziare dalla contemplazione della forma, questa forma in un’opera d’arte non è una pura forma bella (come nell’artigianato, design, ecc), ma una forma che è essa stessa un nuovo significato, un senso: è appunto uno stile-testo. Non si tratta dunque, per questo “concetto chiuso” di arte, di un approccio formalistico.

 

 

La perdita della forma

 

Ciò a cui oggi stiamo assistendo è una progressiva perdita dell’interesse per la forma. Si tratta di un processo inaugurato dalle avanguardie storiche, agli inizi del Novecento.

 

L’Avanguardia, che è tutta interna alla Storia, alla ideologia del progresso (dove ciò che è nuovo (più avanti) e meglio (più progredito) di ciò che sta dietro (nel passato)), introduce nell’operazione arte il progresso. Per l’Avanguardia l’arte ha progresso. Ma ciò è possibile solo in quanto per l’Avanguardia l’operazione arte non ha più la funzione prima di produrre narrazioni che esibiscono la loro qualità di artisticità (come da  30/40.000 anni), ma ha invece la funzione prima di produrre narrazioni, oggetti ed eventi sempre nuovi, e addirittura teorie che sostituiscano le opere considerate ormai inutili, insomma tutto ciò che possa essere efficace strumento del cambiamento e della rivoluzione sociale: cioè, in definitiva, significati. 

All’interno della ideologia del progresso, la forma riuscita che ferma il tempo è un elemento di conservazione. Per cui l’Avanguardia privilegia l’allegoria, dove significato e forma sono mutevoli e separati, piuttosto che il simbolo, dove il significato è forma, cioè immutabile “eternità” (anche se non assoluta metafisicamente, ma relativa alla durata dell’homo sapiens sapiens).

 

Sono stati gli autori, quando hanno perso, a fine Ottocento, il loro ruolo prestigioso di intermediari fra gli dei (l’Altro) e l’umanità, a “rubare” agli scienziati, i nuovi sacerdoti, quella loro in fondo già periclitante idea di progresso.

Ma non tutti gli autori. Gli artisti modernisti, quelli che si sono poi rivelati i grandi autori del Novecento (da Debussy a Picasso a Joyce, da Mallarmé a Kafka a Cézanne, da Klee a Ravel a Bacon, da Proust a De Chirico a Stravinsky a Eliot a Montale ecc., ecc., correttamemte definiti modernisti per differenziarli dagli avanguardisti), hanno sempre invece perseguito la riuscita artistica dell’opera, pur rinnovando anche radicalmente il linguaggio. I modernisti si sono dunque mantenuti all’interno del sistema antropologico dell’arte, mentre gli Avanguardisti, rinunciando alla riuscita formale dell’opera, ne sono usciti e hanno inaugurato l’operazione di estetizzazione del sociale, producendo oggetti, eventi, narrazioni non artistiche ma estetiche: cioè esaltazione del significato.

 

Ma che cos’è la Avanguardia artistica da un punto di vista antropologico? Essa non è che l’intrusione nell’arte (che appartiene al pensiero simbolico) della progettualità scientifica (che appartiene al pensiero razionale). Come se all’Altro che “conduce per mano” l’autore alla riuscita dell’opera (riuscita che è da sempre la protagonista della operazione), subentrasse una nuova “divinità”, la scienza, che ora deve condurre l’autore stesso alla propria riuscita, al suo stesso progresso, come protagonista lui stesso della operazione. Ora è l’autore a essere protagonista della operazione (più avanti, nel postmoderno, lo sarà addirittura il pubblico), sia come singolo che come società, e l’opera diventa mero strumento in funzione della espressione, emancipazione e rivoluzione dell’autore. Insomma solo occasione per l’affermarsi della personalità e creatività ed esteticità dell’autore, dell’uomo, contro l’artisticità delle opere, cioè contro la presenza dell’Altro. In altre parole l’uomo, che è la “misura di tutte le cose”, è ora la misura delle sue opere: l’uomo è la misura dell’arte. Dice infatti la proposizione di questa teoria procedurale avanguardistica egemone nel 900: “è arte ciò che gli uomini (che hanno il potere di farlo e di imporlo) chiamano arte”.

 

Quest’uomo “misura di tutte le cose” è anche, conseguentemente, piuttosto presuntuoso. Mal sopporta di produrre cose che non siano solo frutto della sua fertile intelligenza, ma siano in parte, anzi in gran parte, frutto dell’Altro, dell’inconscio (muse, ispirazione, dei, ecc.), se non addirittura di un supposto inconscio collettivo, che toglierebbe alla coscienza individuale razionale il compiacimento della propria bravura. L’esempio emblematico di questo dramma è Duchamp. Non potendo competere nella produzione pittorica con personaggi della statura di Picasso e altri suoi contemporanei, produzione pittorica che egli allora chiama “retinica”, edonistica e formalistica, adatta solo a fare i soldi, Duchamp non solo smette “il volgare piacere” di pitturare21, per dedicarsi solo alla invenzione di idee, ma decreta la centralità dell’uomo “misura dell’arte” affermado che, pur non essendo le sue opere opere d’arte, lui è l’artista (il demiurgo). Egli nega così ogni possibilità di giudizio di valore artistico delle opere, e decreta la non pertinenza del  giudizio di artisticità teorizzata poi dal postmoderno.

 

Questa intrusione della ragione filosofica e scientifica nell’arte è stata dunque possibile nella dimensione della Storia.

Da quando l’uomo “misura di tutte le cose” ha inventato la Storia, ha ridotto tutti gli accadimenti alla sua misura di uomo che progredisce, ha misurato tutto relativamente a quell’ipotetico progresso. Per cui anche l’arte, nonostante per millenni si sia nutrita dell’Altro dalla ragione, è stata dalla ragione avanguardistica improvvisamente piegata al progresso, costretta a progredire, diventando un evento esclusivamente storico, senza quasi legame con l’Altro, con l’inconscio, con le costanti antropologiche. Costretta a progredire, quindi anche a finire, perché nessun progresso può essere infinito.

 

Dunque l’avanguardia storica è il compimento di un processo in cui l’uomo diventa finalmente “misura” anche dell’arte, e quindi padrone di stravolgerla e farne “un’altra cosa qualsiasi”, semplice strumento del progresso della Storia. Ma se tutto può essere arte, l’arte non è niente. Così come l’uomo, se è misura di tutto, è insignificante, irrilevante nel relativismo nichilistico.

Comunque da allora si è instaurato un tale clima di aggressività e intimidazione, all’interno dell’arte come istituzione, che nessuno si arrischia a dire che non è arte qualcosa che il potere della istituzione ha decretato essere arte.

 

Tutto ciò poggia sulla presunzione che “la questione dell’arte sia una questione della filosofia”. Ciò è certamente vero, se si tratta della questione del “progresso dell’arte”, che è una invenzione della filosofia occidentale, e che concerne solo l’avanguardia (determinata appunto dalla intrusione della ragione della filosofia e della scienza nell’arte). Ma non è vero per l’arte per se stessa, operazione inventata molti millenni prima della filosofia. E che non ha nessun bisogno di farsi dire dalla filosofia quello che deve e non deve essere, quello che deve e non deve fare.

 

Inoltre poggia sulla presunzione che la Storia (come realizzazione di un disegno della ragione) sia l’unica dimensione possibile della realtà, e non invece solo una delle differenti interpretazioni della realtà e della dinamica sociale, quella occidentale moderna, cioè di uomini che si considerano i soggetti della Storia.

 

Questa Storia è un treno che perentorio va in uno smisurato spazio verso una stazione ultima (eskaton): è il tempo lineare cumulativo del progresso. Al suo interno generazioni di soggetti passeggeri si adoperano per essere sempre più “nuovi”, cioè più adeguati all’ultima stazione. Tutto ciò che fanno, che sono, è in funzione di questo andare, e rispetto ad esso cercano il loro valore. L’organizzazione, il bagaglio, i vestiti, gli indirizzi, gli appuntamenti ecc., sono conformi al senso ultimo del viaggio, hanno un significato solo in funzione del viaggio. Ma se si accorgessero del paesaggio che sta fuori, e si riconoscessero allora rispetto ad esso e non rispetto a quell’andare, il treno svanirebbe. E sarebbero insieme nel vasto spazio dove il tempo non ha una direzione determinata, perché è un altro tempo, un tempo diverso da quello della ragione. Un tempo d’avventura nell’Altro. Potrebbero, intensi in questo spazio, riconoscere la “bellezza” che appartiene a questo altro tempo,  e che è di tutti. E rendersi conto che la creatività non appartiene al tempo lineare, cumulativo, progressivo della logica razionale, ma a questo altro tempo che è l’”eterno” presente dell’inconscio.

Scendere dal treno sarebbe allora prendere atto che l’agitato viaggio della contaminazione dell’arte da parte della ragione (scientifica) è finito. Sta a loro risolverlo in un’altra affascinante avventura, nello spazio dell’Altro. E così fermare il tempo in quel “tempo fermo” che è l’opera d’arte13

 

All’interno del treno, in una simile dimensione metafisica di progresso, è sembrato ovviamente legittimo e normale il prevalere di un pensiero razionale più progredito su un pensiero simbolico arretrato. Ma si è allora negato, in quest’ottica ultrarazionalista, l’impianto di interazione creativa di pensiero simbolico e pensiero razionale. Infatti, tutto ciò che sfugge alla razionalità del progresso, è stato considerato negativamente conservazione. Fino al punto da considerare reazionaria, da parte delle avanguardie, la stessa priorità millenaria della forma nella operazione arte.

 

C’è stata dunque, durante tutto il Novecento, una diffusa tendenza a quella che si potrebbe definire una “aggressione della forma da parte del significato”. Verrebbe da contestare questa affermazione, ricordando le innumerevoli innovazioni formali che dimostrerebbero invece una estrema “cura della forma”. Ma si tratta invece di chiarire in funzione di cosa quelle innovazioni sono state inventate.

Ci sono state le innovazioni negative nei confronti della forma di Dada, di Duchamp, dei concettuali, ecc., votate alla priorità assoluta dl significato; ci sono state le innovazioni per l’esaltazione del significato, pur nel mantenimento di una certa “cura della forma”, come nelle narrazioni estetiche impegnate politicamente, nelle illustrazioni, nella pubblicità ecc.; e poi le innovazioni formalistiche fine a se stesse (la forma come assoluto) dei Malevic, dei Mondrian ecc.; infine le innovazioni in funzione sempre della riuscita della narrazione artistica (opera d’arte), come negli artisti modernisti già citati.

Ma si può dire che c’è sullo sfondo di tutte le innovazioni l’incombere della questione di una fortissima significazione. Infatti il Novecento è stato vissuto dai suoi protagonisti come un secolo speciale, come una vita/significato intensissima, da un lato per l’imporsi prepotente della Tecnica, dall’altro per la drammatica crisi del civiltà umanistica, con gli straordinari eventi che ne sono derivati. C’è stata in tutti la convinzione, in alcuni anche la presunzione, di essere protagonisti, nel bene e nel male, di un’ “epoca epocale”, straordinaria, unica nella Storia, quasi l’apice della Storia stessa, il capolinea di quel viaggio in treno. Questo “immenso significato” (per cui “nulla sarà mai com prima”) doveva essere espresso, esaltato (il progresso della scienza, la rivoluzione d’ottobre, la vittoria sul nazismo, ecc.) o condannato (le guerre, l’olocausto, il genocidio della fame nel mondo ecc.), ma comunque reso indimenticabile, in un modo anch’esso straordinario, unico. Ecco riemergere allora l’idea dell’arte come “imitazione” del reale, nel senso che forse solo la sua riproduzione in “forma orrenda” può suscitare l’orrore di ciò che è avvento.

Si è molto discusso infatti nel secondo dopoguerra se il linguaggio, artistico o meno, riesca a far sentire l’orrore, a “imitare” l’orrore di Auschwitz (o addirittura se, non potendolo fare, l’arte non debba negarsi tout court, Adorno). Perché il linguaggio non è riuscito mai a far veramente sentire l’orrore (a “imitare” l’orrore) di Auschwitz, né quegli altri orrori o beatitudini che sono sempre esistiti. Il linguaggio narra le cose e gli eventi, non può “riprodurre”, non può “imitare” l’orrore o la beatitudine. Può solo, con la cura della forma, cercare di rendere la narrazione dell’orrore o della beatitudine più pregnante, mitica, indimenticabile (“per non dimenticare”): ed è ciò che ha sempre fatto la narrazione estetica, che è prodotta con cura della forma proprio per quello.20 Ma non può essere essa stessa quell’orrore.

Tuttavia, quando l’orrore è così immane (Auschwitz), molti  autori sono indotti a intervenire sul linguaggio stesso, “torturandolo”, quasi in odio per la sua inadeguatezza, nel tentativo di fargli “imitare” l’orrore. Ma si tratta di una inadeguatezza nel significare, in ciò che si vuol dire, e la “tortura” della forma non risolve il problema. In compenso si distrugge la forma, cioè ogni possibilità di artisticità dell’opera. E si giustifica questa distruzione della forma come il “silenzio” del linguaggio di fronte all’orrore. Il “silenzio” come massima denuncia di quell’orrore. Il “silenzio” come autonegazione dell’arte.

 

Certamente c’è in questa “tortura” del linguaggio l’autonegazione dell’arte, per cui di arte non sarebbe più il caso di parlare. Ma invece se ne continua a parlare, impropriamente, nell’“arte come istituzione”, mentre si dovrebbe solo parlare di oggetti o narrazioni estetiche dell’avanguardia sperimentale.

Infatti, gli autori modernisti (non avanguardisti)) di cui si è parlato, hanno perseguito comunque la riuscita artistica dell’opera, perché erano ben consapevoli, per una profonda intuizione di artisti, che solo questa riuscita, questa “bellezza”, può, nell’ambito dei linguaggi e per la loro inadeguatezza, conciliare ogni più immensa contraddizione della ragione (come l’olocausto o altro). E lo fa in quanto appunto simbolo sintetico (vedi le note 12bis e 13).

Così questi modernisti non hanno affatto ridotto il linguagio al silenzio, lo hanno anzi semmai rinnovato sempre nell’intenzione di produrre anzituto narrazioni artistiche, consapevoli che l’arte non si può non fare (anche di fronte all’orrore) e che non può per sua costituzione “imitare” alcunché, e tanto meno l’orrore.

L’artista Beckett non è “silente”, non distrugge il linguaggio, anzi narra, nel suo originale stile-testo, il “silenzio” dei personaggi e nel mondo, come l’artista Dante narrava la beatitudine nel paradiso. E dopo Duchamp (e Fontana) l’artista Bacon narra ancora, nel suo stile-testo, il suo orrore, come Giotto narrava la sua meraviglia per il peso delle cose. In altre parole: gli artisti (come Bacon e Beckett) ci sono o non ci sono (ed è un problema socioculturale e antropologico), ma l’arte non progredisce nelle operazioni di un Duchamp (e Fontana), che sono tutt’altra cosa, un prodotto dall’arte come  istituzione. E tanto meno progredisce in quelle opere che vogliono riprodurre l’”orrore”, esponendo foto o modelli o la stessa carne sofferente nelle “performance” come metafore dell’angoscia, ecc.

Dunque la narrazione artistica certamente comprende in sé anche la narrazione estetica che narra l’orrore, ma la sua funzione prima è ben altra, è quella di conciliare tutte quelle contraddizioni nella sua “bellezza”, nella sua riuscita (perfezione formale). La quale produce una speciale emozione, che per se stessa poco ha a che vedere con quell’orrore o quella beatitudine (che pure possono essere stati il motivo, lo spunto, il pretesto dell’opera).

 

Ora, in questa intrusione nell’arte della idea razionale di progresso (per il quale l’arte dovrebbe adeguarsi, anche “torturando” la forma,  per esprimere o riprodurre il “Significato epocale”) non avviene nell’arte alcun progresso (d’altronde impossibile), ma avviene anzi, dal punto di vista della sua psicogenesi, un regresso dalla narrazione artistica alla narrazione estetica. Cioè a una narrazione, in cui la forma non si è ancora emancipata dall’essere mero strumento in funzione del significato. Insomma un regresso a prima della invenzione dell’arte, al pre-artistico come rituale o come mera comunicazione estetica del significato.

Ma poiché ciò avviene in una situazione culturale in cui domina la ragione come ordine onto-teo-logico  nella versione di una Storia che non è più nient’altro che sviluppo della tecnica, ciò che si impone ora come “Significato epocale” è solo il “nuovo”, in funzione di quello sviluppo.

 

Estremizzando, si può dire che, mentre la narrazione artistica (opera d’arte) nasce ogni volta da un “nulla formale”, per cui gli artisti parlano del “terrore” della pagina bianca, della tela bianca, ecc., e un incipit formalmente infelice può anche essere fatale alla riuscita dell’opera, la narrazione estetica, che, nonostante una certa cura della forma, è anzitutto un atto di significazione, deve oggi tenere in massimo conto la novità del suo messaggio, deve essere formata in forma tale che il messaggio sia sempre “nuovo”, cioè con una sempre opportuna quantità di informazione. La forma è subordinata alla informazione contenuta nella significazione, informazione che si consuma. Da qui l’esigenza del “nuovo”, della sperimentazione di sempre nuove significazioni, nuove “idee”, nuove informazioni e interpretazioni del mondo, nuove trovate e sensazioni, nuovi shock.

Ma se il “nuovo” è sempre “a misura dell’uomo razionale”, diventa noiosissimo. Non è più un’avventura, che sta nell’Altro dalla ragione, ma solo frigidità.

 

Si tratta, quindi, di un differente approccio alla questione vitale del tempo che passa, dell’angoscia del divenire e della morte. Se la cura della forma è da sempre l’artificio principe dell’uomo per combattere quella angoscia, una cosa è “fermare il tempo” nella riuscita della forma, altra cosa è “rincorrere il tempo”, stare al suo passo, nella quotidiana invenzione del “nuovo”.  Questo voler “vincere il tempo sul tempo”, questo precorrere il tempo e annullarlo facendosi ad esso contemporanei, è reso possibibile ma anche determinato dalla tecnica. La “perdita della forma”, il declino della riuscita dell’opera, a favore di una sempre nuova invenzione di significazioni, è infatti la caratteristica di una cultura tecnologica, che favorisce l’estetizzazione diffusa piuttosto che la contemplazione della artisticità delle opere. Di fatto l’uomo occidentale contemporaneo ha sempre meno bisogno di forma, e di contemplazione della forma artistica, e sempre più bisogno di estetizzazione e mitizzazione. Si può dire, in modo paradossale, che l’uomo “non ha più tempo di fermare il tempo” nell’arte. Ha più bisogno della leggerezza del “giocare nel tempo” che della intensità del “tempo fermo” che è l’opera d’arte.

D’altra parte, come potrebbe un uomo, prigioniero di una routine quotidiana razionalizzata, senza l’avventura nell’Altro, essere indotto a contemplare qualcosa? Se la misura di tutto è lui stesso, egli è condannato a guardare sempre solo un noiosissmo se stesso.

Infatti questa riduzione dell’artistico all’estetico fa parte dell’impotenza, dell’incapacità dell’uomo occidentale contemporaneo a inventarsi l’Altro quotidiano, la trascendenza quotidiana come strumento di vita, come quel senso che l’homo sapiens sapiens ha imparato a dare quotidianamente, nel pensiero simbolico, alla vita; quella vita che egli sa non avere alcun senso nel pensiero razionale (appunto per le contraddizioni immani che la ragione non riesce a conciliare).

E’ l’eccesso di razionalità, il ridurre tutto a misura della sua razionalità quantitativa che porta l’uomo al nichilismo. Questo eccesso di quantità distrugge in lui il senso della qualità. E allora la riduzione dell’artistico all’estetico è riduzione del difficile al facile, la tendenza alla deriva dalle poche opere d’arte, poche perché difficili, ai tantissimi oggetti estetici, tanto più numerosi quanto più facili.

Ed è la riduzione della avventura (difficile) nell’ignoto (Rimbaud) alla passeggiata (facile) nel giardino pubblico (il mio Friuli reso “insignificante e sgualcito giardino pubblico”), dove tutto è “umano, troppo umano”, e l’uomo è prigioniero della claustrofobia di se stesso “misura di tutte le cose”.

 

La più appariscente manifestazione oggi del vano tentativo, forse del tutto inconscio, di uscire da questa claustrofobia, è l’attuale malinconica mania per la fotografia. Al di là della dimensione puramente informativa, la dimensione estetica di questa mania (facilitata certamente dalla tecnologia), non è altro che un ossessivo inconscio tentare di cogliere l’immagine dell’Altro, di uscire nell’Altro, nel modo più facile, senza la fatica della creazione di un “mondo altro”, di uno stile-testo.

Infatti la fotografia già per se stessa, nonostante una possibile “cura della forma”, sembra inesorabilmente “troppo vera” per poter diventare invenzione di “mondo altro”, di uno stile-testo. La visione dell’obiettivo tecnologico contiene troppa realtà, troppa “obiettività”, per cui l’uomo/fotografo è costretto inesorabilmente a vedere nella fotografia solo il “noiosissimo se stesso”. E’ minima la possibilità di creare un “mondo altro”, uno stile-testo, attraverso il quale uscire all’avventura in quell’Altro che dà identità e il massimo di senso. E allora l’uomo/fotografo è condannato nella claustrofobia di se stesso, come un moscone che sbatte sul vetro per uscire nel cielo, ma sbattendo sul vetro si scontra sempre con la sua stessa immagine, e invano tenta di uscire in quel cielo che è l’Altro.

 

Dunque è dall’inizio del 900 che stiamo assistendo a questo ridimensionamento della forma a vantaggio del significato, cioè, da un punto di vista psicogenetico, a questa regressione dall’artistico all’estetico. Questo spostamento di interesse avviene in nome di un progresso dell’arte tutto all’interno del concetto occidentale di Storia, e si manifesta nell’indifferenza alla compiutezza e perfezione formale (riuscita dell’opera), nella esigenza di narrare comunque una storia (testimoniare agli altri la propria esteticità, la propria significanza), nella scelta ideologica del “concettuale” di derivazione duchampiana, nello sperimentalismo fine a se stesso di derivazione scientifica, nel “nuovo per il sempre uguale” del mercato capitalistico.

 

Ma lo sbocco obbligato della Storia, che alle origini nell’incanto dell’immaginario del pensiero simbolico si chiamava Utopia, ora, nel disincanto della scienza del pensiero razionale, si chiama mutazione antropologica.

 

Si dice infatti: la tecnica è il destino dell’uomo. Che vuol dire: la Storia, come progresso cumulativo diretto dalla volontà razionale dell’uomo verso l’Utopia, è giunta al suo compimento: è arrivata al punto in cui non è più l’uomo a decidere del proprio destino, la propria Storia, ma a determinare il destino dell’uomo è la tecnica, che da mezzo è diventato fine. Si dice infatti che la tecnica farà tutto ciò che potrà fare, e lo farà solo per potenziare se stessa, a favore oppure contro l’uomo indifferentemente.

Così, come la Natura “misura di tutte le cose” è stata spodestata dall’uomo “misura di tutte le cose”, sembra che questo venga ora spodestato dalla tecnica a sua volta diventata “misura di tutte le cose”. Ma se questo è vero, tutte le discussioni sull’arte, e quindi sull’estetico e artistico, sono antiquate.

 

Se questo è vero, il prevalere dell’estetico sull’artistico non è più un problema dell’arte, ma il graduale passaggio dalla soggettiva creatività individuale ad una attività intellettuale omologata e finalizzata esclusivamente all’uso e al potenziamento della tecnica. Cioè, in definitiva, il sintomo di una mutazione antropologica dall’homo sapiens sapiens in un altro ominide.

 

Allora due sono gli scenari. O, giunto al limite delle sue possibilità, quest’uomo è destinato sradicarsi tagliando il cordone ombelicale che lo lega alla Grande Madre Natura e a proliferare nel tempo e nello spazio come creatura nuova di una nuova Grande Madre, la tecnica. Oppure, non ancora all’apice come homo sapiens sapiens, egli può continuare a germogliare in qualsivoglia direzione, ma sempre erede delle sue lontane origini naturali, come albero che si nutre dalle sue radici costanti.

Nel primo caso, nessun discorso sull’arte sarà ormai pertinente, in quanto il nuovo ominide non avrà alcun bisogno dell’arte, per il semplice fatto che, figlio della tecnica, avrà con la morte un rapporto assolutamente diverso dal nostro.

Ma nel secondo caso, che pretenda o meno di perpetuare il progetto umanistico, l’uomo occidentale non potrà prescindere dal ristabilire un rapporto forte con l’Altro. E non perché questo Altro sia un inconscio come preistoria del Logos, cioè contenga una volta per tutte, staticamente, una ancestrale misteriosa e abissale verità, un senso ultimo della vita da scoprire e razionalmente conoscere; ma perché è invece dinamicamente costitutivo della nostra condizione di homo sapiens sapiens, come quotidiana invenzione di trascendenza.

Dunque questo Altro non è l’indifferenziato, il caos primordiale dove indifferentemente ogni cosa poteva avere un qualsiasi senso, e dal quale finalmente il Logos si sia emancipato, decidendo per ogni cosa un unico significato e non altro, secondo il principio di non contraddizione della ragione. L’Altro è invece una invenzione quotidiana che accompagna l’evolversi della coscienza e la consapevolezza dei suoi limiti. Così è la coscienza stessa, quando precipita nel “labirinto di pensieri” da cui non riesce a uscire, a suscitare l’Altro. E nel sentimento cui l’Altro induce, la coscienza esce da se stessa, oltrepassa se stessa uscendo dalla claustrofobia di se stessa, del proprio troppo pensare.

 

L’invenzione dell’Altro è la sua libertà.

Dunque l’Io e l’Altro, andando di pari passo, si potenziano a vicenda. Più l’Altro è forte, più è forte l’Io, la sua identità, la sua libertà.

Si deve allora quotidianamente coltivare l’Altro come un compagno di strada, che ci permette di inventare lungo il cammino ogni senso e ogni identità, mentre invece la esclusiva coscienza razionale diventa una prigione di soli concetti, una claustrofobia dell’uomo “misura di tutte le cose”.

 

Ma che cosa è la creatività, se non un inventare l’Altro? Creare il non esistente è andare all’avventura nei luoghi ignoti alla conoscenza razionale, i luoghi dell’Altro.

Ma ancora di nuovo va distinta la creatività estetica dalla creatività artistica.

 

La creatività estetica, mantenendo la forma subordinata alla razionalità comunicativa, ha con l’Altro un rapporto debole. E infatti oggi essa si riduce in gran parte a una dimensione rituale dell’esistenza nella estetizzazione diffusa, legittimata dai superficiali esercizi della razionalità comunicativa. Questa estetizzazione è un proliferare di oggetti ed eventi estetici, che esibiscono significati e non una forma formata. Hanno il loro senso solo nel momento in cui comunicano, ma subito si consumano, e quindi vanno continuamente ripetuti. E questo proliferare di testimonianze agli altri della esteticità di ognuno che deve per forza essere facile, come comune denominatore di tutti, si affida alla nuova Grande Madre tecnica. E in questo è una regressione. E’ come se il “genio”, che un tempo si affidava e sfidava gli dei, fosse ora tornato a casa dalla mamma.

 

La creatività artistica invece emancipa la forma, liberandola e rendendola protagonista, insieme alla ragione (come strumento e non come fine), dell’invenzione di un “mondo altro”, lo stile-testo riuscito dell’opera. E qui, nella riuscita dell’opera d’arte, avviene nella differenza il reciproco riconoscimento tra l’Io e l’Altro, tra il conscio e l’inconscio, tra ragione e intuizione, tra l’uomo e gli dei, tra significato e forma.

E non solo l’autore, ma anche ogni interlocutore dell’opera sente di essere lui stesso, insieme all’autore, il creatore di questa esperienza. C’è in lui infatti il forte compiacimento di saper sentire l’artistico (che lui chiama comunemente “bellezza”), di saper suscitare in sé l’Altro. E al cospetto di questo Altro che è la bellezza, che anche lui, non solo l’autore, ha creato, la sua identità si fa immensa.

Perché anche il suo stesso caos, nell’essere uomo come “misura di tutte le cose”, può diventare una forma.

 

Dunque, parlando da un punto di vista umanistico, se non è troppo tardi, l’arte è l’antitecnica per antonomasia. “Resistenza”.

 

 

 

 

 

Note

 

1. “Le costanti cosmologiche, che nell’orizzonte mitico si chiamavano dèi, in quello filosofico idee, in quello scientifico leggi, sono quelle condizioni che consentono alla ragione di “aver ragione” della natura, per cui da sempre la ragione è tecnica di dominio, e quindi strumento di sopravvivenza che consente all’uomo di sottrarsi alla prima radice dell’angoscia cioè l’angoscia dell