Elio Copetti Una premessa personaleIn questo articolo cercherò di sviluppare alcune questioni che riguardano grossomodo “la comunicazione nel mondo artistico”, limitandomi ovviamente alla “porzione” di tale mondo che mi risulta, più o meno direttamente, accessibile. Dichiaro subito che se tale porzione è andata nel tempo gradualmente estendendosi, ciò si deve in gran parte ad Internet, che mi ha consentito di saltare a piè pari una realtà locale per certi versi incredibilmente sterile, o per lo meno ermeticamente chiusa. Una realtà nella quale gli artisti mi apparivano quali “monadi” isolate e gelose dei propri rapporti esclusivi con critici e galleristi. Forse in tutto questo vi era anche l’intralcio di un certo carattere “chiuso” abbastanza diffuso nelle nostre popolazioni, fatto sta che attraverso Internet una tale visione ha finito per ribaltarsi completamente: non sembra esserci interlocutore migliore, per un artista, di quello costituito dalla già abbastanza vasta comunità degli artisti “virtuali”. Per provare a difendere, prima di moderare a mia volta, una tale ottimistica concezione, risponderei innanzitutto ad un paio delle obiezioni più ricorrenti. Secondo la prima, attraverso l'e-mail o gli altri strumenti tipici di Internet non si possono davvero affrontare le intricate questioni dell’arte attuale. La seconda è molto più diretta: saranno “veri artisti” coloro che si ritrovano all'interno di queste comunità virtuali? O non si tratterà piuttosto di aggregazioni marginali, incapaci di incidere davvero sulle dinamiche del fenomeno artistico? Internet come strumentoSul primo punto, direi che prima di emettere giudizi definitivi sarebbe consigliabile qualche anno di tirocinio all’interno dei cosiddetti “gruppi di discussione”. Non si tratta soltanto di acquisire una decente velocità di battuta alla tastiera, ma anche di sviluppare un certo fiuto nella selezione degli interlocutori e degli spunti da coltivare, nella regolazione della propria verbosità, dei propri “tempi di reazione” (oltrepassato un certo “ritardo” una discussione di gruppo inevitabilmente muore) e di una miriade di altri aspetti. La ovvia verità è che nessuna abilità ti arriva mai “gratis” e quindi ognuno dovrà decidere, a fronte degli sforzi che gli vengono richiesti, se provare ad inserirsi in questi nuovi spazi virtuali oppure starsene in disparte. A me naturalmente non interessa convincere nessuno, anche perché una tale scelta dipende in maniera ovvia anche dal grado di adattamento, o dipendenza, di ciascuno nei riguardi dei vecchi giochi: tutti i conservatori hanno sempre ottime ragioni dalla loro parte. Da parte mia ritengo che, all’interno dell’inevitabile “rumore di fondo” che rappresenta il fatale contrappasso di una partecipazione allargata, sia possibile incontrare su Internet dei “thread” (tipici sviluppi ad albero di una discussione tra due o più persone) di buon valore1, perlomeno superiore alla media dei testi che si incontrano su cataloghi, pieghevoli o “pagine culturali” che mostrano quasi sempre una valenza puramente promozionale. Stesso strumento, differenti risposteIn questo ambito sembra comunque evidenziarsi una curiosa divergenza tra i comportamenti delle “figure” che caratterizzavano il tradizionale “gioco dell’arte” 2. Sembra infatti che solo tra gli artisti sia possibile trovare degli interlocutori attenti, disposti a spendere parte del proprio tempo e persino a giungere a forme di collaborazione diretta. I galleristi non sembrano in grado di articolare altro che le meticolose clausole dei loro contratti di “collaborazione”, ma si possono in fondo facilmente capire. Un po’ meno facile risulta comprendere certi “critici” e “professori d’estetica” che ostentano inutilmente, all’interno dei loro siti3, il loro indirizzo e-mail. Quando anche essi rispondano, state certi che la cortesia di facciata cadrà in frantumi ai primi passi che portino verso il minimo approfondimento dei temi e di conseguenza dell'impegno richiesto. D’accordo, il tempo è denaro, questo vale per tutti. Ma sarebbe davvero interessante indagare i motivi di una differenza in “idealità” che si rivela piuttosto marcata. Forse l’artista è già assuefatto, dalla sua missione di ricercare “cose” eternamente sfuggenti, a “spendersi” anche in assenza di contropartite certe, mentre queste altre figure non sembrano voler fare altro che “vendere” le proprie peculiari competenze all’interno delle varie strutturazioni sociali che spontaneamente si organizzano intorno all’arte per sfruttarne, per quanto possibile, i prodotti. Un ruolo necessario, nessuno lo nega, ma che con la ricerca artistica “in se stessa” ha probabilmente ben poco a che fare4. E se i “veri artisti” fossero comunque troppi?A questo punto però, diventa impossibile rimandare la seconda obiezione: “eh, ma quelli mica sono i veri artisti!”. A mio parere, la finestra sul mondo costituita da Internet non può non fornire, ad una mente onesta, un dato di fatto essenziale: gli artisti sono molti. E questo senza dover giungere alla posizione, tanto estrema quanto futile, di ritenere che “chiunque” possa essere considerato un artista, basta che egli lo desideri o che si metta nella giusta “disposizione d’animo”. Qui non si tratta di una ridicola lizza sociale per il possesso di un’etichetta ma piuttosto della vecchia questione se davvero “tutto” possa essere considerato arte. In altre parole, se all’ironica mossa di Duchamp vada reso un ragionevole onore, rapportato all’irripetibile contesto storico nel quale essa si è cristallizzata, oppure se tale mossa vada celebrata nell’assoluto e quindi noiosamente reiterata a tempo indeterminato5. Comunque sia, non occorre affatto uscire dal “senso comune” per prendere nota di un dato di fatto: l’esplosione demografica, accoppiata al generale innalzamento dei livelli dell'istruzione di massa, accoppiata ancora allo storico dissolvimento dei gradienti6 attraverso i quali, in altri tempi, la distribuzione degli specifici talenti aveva trovato modo di strutturarsi in gerarchie in qualche misura condivisibili, ha portato ad una attuale, terrificante, “numerosità”. C’è un generale interesse ad ignorare, o in qualche modo ad esorcizzare, questa numerosità. Alla fine ne va della nostra capacità di riassumere il fenomeno artistico entro un numero ragionevole di storie ben raccontate, e quindi di continuare ad integrare efficacemente tale dimensione in quella rappresentazione sintetica del mondo alla quale diamo il nome di “cultura”7. Intuizioni e fiducia di fondoQual è il problema in fin dei conti? Il problema è che la nostra vita è breve e noi vogliamo, per quanto possibile, riempirla di esperienze autentiche e significative, non di frodi e stupidaggini. Forse rivolgiamo all’Arte delle aspettative esagerate, forse altri hanno già capito l’ingenuità di queste aspettative, e si sono intelligentemente predisposti a sfruttare la nostra grullaggine. Questa è l’impressione di fondo che ricavo dalla mia esperienza dell’attuale sistema artistico-mercantile, un’impressione che si consolida quanto più ne vengo a conoscere i retroscena ed i meccanismi di funzionamento. Un’impressione di sofisticazione ed intelligenza talvolta estreme, ma sempre in qualche modo associate ad una falsità di fondo, ad una doppia faccia, ad una leggiadra presa per i fondelli. Personalmente riesco ancora a credere a singole opere ed a singoli artisti, del presente come del passato, ma non certo all’arte come Istituzione8, e tanto meno alle sue Grandi Narrative. Saranno allora “veri artisti” quelli che, interagendo su Internet, sembrano voler provare a scuotere il vecchio quadro9? Si potrebbe certo tentare un’analisi di taglio sociologico: studiarne la formazione, i livelli di professionalità, vedere quanto, come, e a chi vendono, dove espongono, chi scrive su di loro, eccetera. Quello che però alla fine conta, in questo tipo di faccende, è la propria intuizione. Qui non si tratta di prescrivere ricette agli altri, ma semplicemente di provare a ragionare ad alta voce, così da poter eventualmente ricevere delle utili correzioni di rotta. La mia impressione, dopo un certo percorso attraverso le mostre locali, gli eventi di Villa Manin, le gallerie virtuali di Internet, le piccole gallerie londinesi fino ad arrivare (come spettatore ovviamente) alla Tate Modern Gallery, è che tra “ciò che sta in alto” e “ciò che sta in basso” non vi sia davvero quell’“abisso qualitativo” capace di giustificare le enormi differenze di visibilità, attenzione, e se vogliamo anche di “quotazioni”, che si riscontrano nell’attuale sistema artistico. Un sistema fatto di centri e di ristrettissime élite che decretano cosa sia o non sia “arte” attraverso atti di pura autorità, che non sembrano dover rendere conto a nessun criterio autenticamente inter-soggettivo. La mia intuizione mi dice che le intelligenze, le sensibilità, le formazioni, i tentativi, gli slanci ed i ripieghi di tutte queste persone sinceramente impegnate nella ricerca artistica non sono poi così dissimili tra loro. Ovunque si riscontrano gli incerti frutti di un'analoga applicazione, molto umana, nel bene quanto nel male. Ovunque si riscontrano gli effetti di una carenza di “gradienti” adatti ad opporre una resistenza davvero allenante a tutte queste forze in cerca di applicazione10. Mi è però ugualmente evidente come una credenza in un tale “abisso” sia socialmente necessaria, allo stesso modo di tante altre credenze di questo tipo, dato che non viviamo soltanto delle nostre esperienze dirette ma probabilmente ancora di più di quelle indirette, che ci vengono mediate dalla società attraverso i media, la cultura, il linguaggio stesso. Una sintesi di tutto quello che non possiamo esperire direttamente ci sarà ovviamente sempre necessaria: per esempio non potremmo neppure conoscere tutti gli artisti realmente validi che operano in un territorio abbastanza vasto: sarebbe annichilente. Possiamo soltanto affrontare una strutturazione gerarchica di tali fenomeni, scendendo ogni volta soltanto su quanto si riveli adatto e proporzionato alle nostre peculiari esigenze. Il fattore decisivo diventa quindi la fiducia nelle strutturazioni che ti vengono proposte. Capire se davvero esse riflettano in qualche modo delle ragioni “profonde” e degne di considerazione, o non rappresentino piuttosto l’ozioso capriccio (o peggio) di coloro che si sono trovati, in qualche modo, a “contare” in un determinato contesto storico e sociale. Il ruolo di InternetPer correggere un quadro che potrebbe altrimenti risultare troppo celebrativo, sarà utile fare un accenno all’altro lato della medaglia. La comunicazione all’interno della comunità degli artisti che si affacciano su Internet è in effetti resa difficile da una miriade di fattori che spaziano dalle differenze culturali e linguistiche alla frammentazione legata all’inevitabile interferenza delle rispettive “vite reali”. Ma soprattutto sembra condizionata da un carico notevole di frustrazione, legato a cause che, secondo la prospettiva del presente articolo, appaiono in fondo piuttosto evidenti. Così a volte può accadere che climi di “amicizia” forse un po’ troppo retorici rivelino improvvisamente un imponente strato di ipocrisia, con esiti talvolta drammatici ma comunque piuttosto istruttivi. Si consideri, ad esempio, il seguente frammento11 di “vita reale”. Pur avendo eliminato ogni riferimento diretto alle persone coinvolte, ritengo corretto specificare che la persona X, che in questo frangente si becca una giustificata rampogna da parte del fondatore del gruppo, e quindi suo leader per lo meno “morale”, è nella realtà una persona molto generosa ed i suoi interventi miravano ad innescare all’interno del gruppo una riflessione critica più autentica e quindi, forse, necessariamente un po’ spietata.
I would say“attention seeking” is rather your business. I received several personal emails by artists asking me to interfere because they can’t stand YOUR irrational postings any more. Just a few examples: You wrote “I was the first one to get a totally sponsored show with no cost to the artist.” X, wake up, we had already several exhibitions with no costs to the artists, except the shipping of artwork, like: [..] Of course organizing these shows has been a lot of work but the organizers didn’t tell everyone a hundred times how much work they did. You wrote ”I dislike the term *fellow artist*. And the idea that this group was set up to *make friends*. It assumes that we all belong to one *category* and we certainly do not. It assumes that we are going to sacrifice our professional art for friendship with people that we haven't even met. And I am not ready for professional sacrifice so early into my own lucrative career.” X, you dislike the main ideas of the project, you dislike the overall quality of artists in our group and you dislike the fact that our shows are generally open to everyone in the group. So what are you doing here? No one forces you to “sacrifice your professional art”. Speaking about being professional – you complained about members being not professional because they didn’t send you the required material – but till now YOU did never manage to send ANY of your material to my address like you’ve promised a lot of times. You complained about having your work damaged when shipped to [..]. You choose the cheapest method to send your paintings. If you had packed and transported your works professionally like other members, it wouldn’t have been damaged. You wrote: “ I believe that a higher standard of work should be expected from someone educated to MFA[Master for Arts, una specie di “laurea” in campo artistico] level than someone self taught.” I can’t believe that you believe such nonsense. You are also insulting again artists like A, or B and others by judging them as “second-class” artists because they didn’t attend an academy of art, while in my eyes they are talented, fascinating artists. The most successful living contemporary Austrian artist ARNULF RAINER has left the academy after only one (!) day, has never been “educated” and now a few time ago the Museum of Modern Art in New York honored him by a personal show and his work is sold for prices most of MFA level artists can only dream of. “I'm withdrawing from the project after the [..] show in September mainly because of my own studies and also because I am concerned about being part of a group that does not a sufficient level of professionalism. I am sure that this can be addressed and wish the project much success.” X, we have to accept your withdrawing from our project and wish your career much success. I personally regret the outcome of the recent discussions, I like your work and I’m sure you’ll make your way. Maybe you’re right and it’s simply not your way to be part of a group at all, at least not of a group that is not fully under your control. Dopo questo lungo giro, ritengo si possa rispondere affermativamente alla seconda delle domande (saranno veri artisti?) che ci si poneva all’inizio. Tuttavia è chiaro che a questa risposta si connettono immediatamente molte altre questioni. Già nel frammento di prima si possono cogliere alcune delle tendenze contrapposte che mantengono in una tensione dinamica la vita di un gruppo di questo tipo. Da una parte il dialogo richiede ovviamente rispetto reciproco, come pure generose dosi di incoraggiamento, tuttavia queste esigenze non dovrebbero arrivare a creare schermi sulla realtà effettiva delle cose12, creando mondi “illusori” che su Internet possono peraltro risultare particolarmente convincenti. Direi che è comunque opportuno mantenere una certa fiducia sulla possibilità che, attraverso l’interazione, vengano spontaneamente a crearsi dei meccanismi di auto-regolazione. Per esempio, riguardo al problema sopra accennato della “selezione qualitativa”, la soluzione migliore consiste forse proprio nel non darsi alcuna regola fissa: a seconda delle opportunità, alcune delle esibizioni di gruppo potranno risultare aperte a tutti i membri che vogliano parteciparvi (privilegiando quindi i fattori di coesione interna) mentre altre potranno invece stabilirsi sulla base di “affinità” più o meno “elettive” ed in tal modo risultare probabilmente più efficaci dal punto di vista dell’immagine esterna13. E’ chiaro che quella stessa ricchezza alla quale attinge un siffatto gruppo, quella cioè di poter mettere in un costruttivo confronto un’ampia gamma di situazioni sociali, culturali e psicologiche, può rappresentare una debolezza nel momento in cui tale gruppo decide di cercare un adattamento alle dinamiche di un mercato che, condizionato com’è dal nodo mediatico, richiede slogan facilmente memorizzabili piuttosto che sottigliezze e complessità, mitologia a buon mercato piuttosto che ragionamenti, toni trionfalistici piuttosto che problematicità. Si tratta di una polarizzazione violenta, che rischia di far velocemente esplodere tutte le contraddizioni interne, ma che rappresenta anche un’occasione straordinaria per osservare il fenomeno artistico da tutti i suoi diversi punti di vista: dal processo interno che presiede alla produzione dell'opera, a come quest'ultima possa addentellarsi o meno ad un gioco sociale che gli preesiste, in tutte le sue svariate dimensioni culturali e mercantili. Fa un certo effetto trovarsi simultaneamente, o a breve distanza di tempo, nel ruolo di artista, spettatore, allestitore di mostre, pubblicitario e propagandista. Un’esperienza che può forse dare a quelle che rimangono pur sempre delle semplici intuizioni, una qualche plausibilità, fosse anche ad un livello puramente personale. Apocalittici o integrati?Ma quale è, in generale, l'atteggiamento di questi artisti di fronte al “sistema dell'arte” ? Poiché si tratta per la maggior parte di artisti professionisti, spesso con un regolare “corso di studi” alle spalle, spesso con una buona esperienza del loro specifico ambiente, essi appaiono amaramente consapevoli delle storture di tale sistema, di come esso si basi così tanto sull'arbitrio dei poteri, sul lavoro delle conoscenze, delle consorterie che si ripetono del tutto simili anche in contesti per altri versi molto differenti tra di loro. Ma si tratta di una condanna non troppo convinta in quanto appare ugualmente chiaro come certe “strutturazioni” servano comunque a mantenere aperti spazi d'azione che non sembrano in alcun modo sostituibili. In altre parole, quasi nessuno pensa di poter fare a meno del mercato, cercando un rapporto diretto e indipendente con il proprio pubblico. Non sembra quindi esserci la volontà di contestare14 quanto piuttosto quella di sfidare tali poteri sul loro stesso terreno, organizzando eventi, rendendo la propria offerta sempre più efficace e sofisticata, così da arrivare a guadagnarsi quella visibilità che ormai sembra diventata l'unica cosa che realmente conti. Si tratta di un atteggiamento volto principalmente alla “cura della confezione” che personalmente mi vede abbastanza scettico, soprattutto considerando la carenza di quell'elaborazione teorica (autentica o simulata che sia, alla fine) che a me sembra diventata l'ultimo sensibile elemento di discriminazione qualitativa. Come già si diceva, quella del critico è la figura latitante di questi mondi, ed anche se in uno dei gruppi di artisti di cui faccio parte se ne può rinvenire un raro esemplare, egli mantiene un atteggiamento di distacco ironico (speculare alla sostanziale, ancorché deferente, indifferenza alle sue “elucubrazioni” con la quale è ripagato dagli artisti del gruppo stesso) che è forse una perfetta esemplificazione della distanza che sembra separare questa popolazione artistica dalle “teorie sull'arte”. Queste teorie, che la maggior parte degli artisti ha già imparato a disprezzare nel corso delle finzioni accademiche, non vengono quasi mai utilizzate nelle discussioni, che tendono quindi a gravitare attorno a problematiche tecniche, emotive o puramente informative. I tentativi di impostare discussioni di tipo teorico o scientifico spesso provocano delle reazioni tipiche da parte di quegli artisti che si sentono, per formazione od inclinazione, “tagliati fuori”, e comunque anche tali tentativi raramente riescono ad entrare pesantemente nel merito della propria riflessione personale, agendo piuttosto indirettamente, attraverso modalità subliminali e cumulative. A volte, stanchezza e scetticismo sembrano dominare il campo, e allora non si vedono proprio i motivi per reiterare per l'ennesima volta le solite grandi questioni sull'arte: meglio allora affidarsi ad uno dei tanti aforismi liquidatori, o ad un po' di ironia. Tuttavia a queste bonacce possono improvvisamente alternarsi delle fioriture improvvise, che, per quanto effimere, consigliano una certa cautela sui possibili esiti finali di tutti questi tentativi. Vedo, prevedo, stravedo ...Ma cosa dovremmo infine attenderci da tutto questo fervore, da questo nuovo incrociarsi di fermenti? Forse che all'interno di questi gruppi possa venire elaborato qualche nuovo e formidabile “manifesto” artistico? Personalmente ritengo che quei tempi siano ormai finiti, ovvero che se anche questo dovesse accadere (in quanto accidentalmente funzionale a qualche particolare opportunità “mercantile”) ciò con tutta probabilità rientrerebbe nella logica imperante della simulazione, della posa, del mero sfruttamento, attraverso “operazioni” che si pretendono “culturali”, di determinate posizioni di privilegio. Ecco allora che Internet, portando in una ineludibile evidenza l'enormità di una certa offerta artistica che si riscontra a livello mondiale, potrebbe, alla lunga, cambiare le modalità stesse di intendere, fruire e praticare almeno determinati tipi di arte. Questa evidenza potrebbe alla fine far capire che certe modalità “creative” fanno semplicemente parte della normale dotazione umana e come tali andrebbero coltivate, ponendo finalmente termine, o confinando in contesti ancora più irrilevanti, al ridicolo sistema dell'arte come “moda”, ovvero ad una modalità di interazione sostanzialmente unidirezionale tra i pochi che determinano ed i tanti che subiscono supinamente, introiettandoli e idealizzandoli, gusti, sensibilità, deliri e chimere che sono in realtà del tutto estranee ai propri contesti ed interessi vitali. Sulla base di questa consapevolezza potrebbero allora determinarsi delle dinamiche più aperte ed autentiche, ed in qualche modo re-innescarsi quei processi di scambio d'informazione, auto-regolazione, mutazione casuale e selezione, che si ripetono, in qualche modo simili, nei processi stocastici dell'evoluzione personale, culturale e genetica. In tal modo, le vecchie formule e forme che vengono oggi stancamente ripetute ad un pubblico sempre più distante, così chiaramente collegate ad incrostazioni storiche ed inerzie sociali, potranno venire superate (storicizzate o dimenticate) da forme nuove che probabilmente sono ancora tutte da scoprire. Forme che non potranno derivare dall'illuminazione del singolo “genio”, e tanto meno dall'astuto e sofisticato progetto di un team di marketing, ma solo dall'incessante e misterioso lavorio della vita. Giocando a teorizzareUn aspetto indubbiamente positivo dell’attuale “gioco dell’arte” è che all’artista viene di fatto riconosciuto il diritto di esprimersi, e persino teorizzare, sulla propria attività senza che gli vengano preventivamente richiesti troppi “titoli”. Questo ritengo accada non per una particolare bontà verso gli artisti da parte della società nel suo complesso, ma piuttosto per l’impossibilità di dare un reale fondamento all’elargizione (e conseguente “gestione”) di un tale genere di “titoli”. Esaminando spassionatamente lo stato “teorico” dell’arte, vi si rinviene una grande varietà di teorie rivali, a volte affascinanti, ma la cui intersezione appare pressoché vuota, cosa che ritengo consenta di escludere il complesso di tali teorie dal novero delle discipline scientifiche, le quali ammettono sempre, almeno quale mera auto-definizione, dei “nuclei” in qualche modo “consolidati”15. Naturalmente in questo c'è anche il rischio di assumere a paradigma il proprio peculiare modo di intendere e vivere il fenomeno artistico, relegando in categorie svalutanti le tipologie di esperienza troppo differenti o lontane. A questo proposito penso che sia conveniente distinguere nettamente, nell’ambito del discorso sull'arte, il piano soggettivo della creazione artistica, cioè del processo creativo individuale, con tutte le sue dimensioni psicologiche fatte di ricerca di equilibri, integrazioni, illuminazioni e quant’altro, da quello dei processi più ampi che possono svilupparsi (o meno) a partire dall’opera, quando questa venga inserita nel campo di forze dei vari giochi sociali. Da un lato quindi rispettare la componente ineffabile, e per taluni affatto “religiosa”, di tale fenomeno, e dall’altro cercare di trarne il massimo dell’inter-soggettività, ovvero di ciò che si può onestamente capire e veicolare attraverso il linguaggio verbale, scientifico o poetico che sia. Ricollegandomi alle tesi di Calligaro, esposte nel numero precedente, ritengo plausibile che, nell’ambito dell'esperienza artistica, si possano individuare delle dimensioni “antropologiche” in qualche modo a-storiche, ovvero correlate a delle “costanti” che si situano ad un livello più profondo di ciò che appare invece chiaramente collegato alle variabilità individuali, culturali, storiche e linguistiche. Soltanto che, onestamente, tali livelli non mi sembrano abbastanza conosciuti da poterci appoggiare sopra troppa teoria. In altre parole, io ritengo che vi siano effettivamente delle opere di fronte alle quali qualsiasi persona (indipendentemente dalle sue coordinate culturali e storiche ma comunque nell’ambito di un certo insieme di ipotetiche “condizioni ideali”) entrerebbe probabilmente in una sorta di “risonanza” psichica che sembra andare aldilà di un semplice (ancorché talvolta molto verboso) “mi piace / non mi piace”. Sono però molto scettico sulla possibilità di estrarre da tali esperienze una conoscenza “positiva”, che ci permetta cioè di costruire un crivello, un argine alla numerosità annichilente di cui si parlava in precedenza. Probabilmente una tale “conoscenza”, se pure esiste, è troppo “procedurale”16, troppo immanente o “cablata” nelle strutturazioni complesse e profonde del nostro essere per potere essere davvero afferrata, ovvero ricondotta ad un qualche modello psichico che risulti “efficace” sul mondo esterno, cioè che non si riduca, alla fine della fiera, ad un mero stimolatore di endorfine. Laddove il processo reale risulta troppo complesso ed elusivo per un tale tipo di comprensione, si possono comunque tentare delle osservazioni indirette. Per alcuni l’arte si troverebbe in una crisi che ha tutta l’aria di essere definitiva. Può anche darsi, però questa crisi sembra colpire alcuni settori, come la pittura e la scultura, molto più di altri. Operando un confronto, si direbbe che le arti che non sembrano affatto in crisi siano quelle che riescono a mantenere una certa base di partecipazione “popolare”. In conseguenza di questo, al loro interno si mantengono alcune polarità: vi è innanzitutto un'ampia produzione di base la quale, per conquistarsi un pubblico in misura sufficiente alla propria sopravvivenza (fosse anche quello dotato del livello minimo, ma mai del tutto inesistente, di competenza) deve per forza sviluppare determinati livelli di competenza tecnica. Il punto essenziale, a mio avviso, è che tali competenze non vengono fissate "teoricamente", bensì "emergono" (darwinianamente, se vogliamo) per mezzo di un feedback continuo e vitale tra l’artefice ed il suo pubblico. Da questo livello "commerciale" possono così emergere opere via via più sofisticate, che tuttavia, in tale emersione, percorrono pur sempre delle linee di forza, dei gradienti, che sono in qualche modo riconoscibili all'interno del più ampio substrato. Se le condizioni sono favorevoli, si innesca allora quello scambio di "scoperte" che può portare alla più fine differenziazione artistica, che non a caso nelle sue maggiori manifestazioni si accompagna sempre ad un certo grado di universalità. Ovviamente anche in questi "sistemi" potranno esistere delle distorsioni che ne rendono l'evoluzione in qualche modo erratica17, però in essi l'ambito generale può assomigliare, per certi versi, a quello della pittura rinascimentale: ricordiamo come a Firenze anche a livello popolare si discutessero con passione i meriti e le graduatorie dei vari artisti. Certo il gradiente della verosimiglianza, che dava uniformità e coerenza a tale campo d'attività, ci sembra oggi insopportabilmente ingenuo. Però era un gradiente, comportava un attrito, una necessità di lavoro, ed una “selezione naturale” capace di portare a galla e sviluppare una determinata gamma di competenze e abilità. E in fin dei conti, pure con gli strumenti di lettura enormemente più sofisticati di cui disponiamo oggi, quelle graduatorie ingenue in buona sostanza reggono ancora, solo che noi “avvolgiamo” quella stessa efficacia entro un bozzolo molto differente di parole. Per contrasto, la pittura di oggi sembra avere ormai perso ogni gradiente e risulta di conseguenza in balia della semplice lotta che si accende per accaparrarsene18 le residue potenzialità sociali. Mi pare abbastanza evidente come questi esiti siano una conseguenza dell'evoluzione storica di tale disciplina sul gradiente, in fondo altrettanto semplice, della parossistica ricerca della novità, della continua ridefinizione dei giochi, ovvero della rivoluzione permanente. La quale sembra alla fine sfociare in una estetizzazione obiettivamente facile, aperta a tutti, all'interno della quale l'unica discriminante sembra rinvenibile nell'abilità di piazzarsi sotto ai pochi e potentissimi riflettori dei media. Tutto questo mi sembra la logica conseguenza di rispettabilissime avventure intellettuali (molto più che artistiche) che hanno portato l'arte al suo stadio attuale. Da un punto di vista storico e filosofico si potrebbe in fondo anche accettare la morte di certi generi e modalità di arte. In fondo Duchamp, Malevich ed altri buontemponi costituiscono dei convincenti terminali di quel grande processo di pensiero (qualche dubbio si può semmai nutrire sui loro insistenti epigoni.) Tuttavia poiché la verità stenta sempre ad imporsi, tanti si attarderanno ancora su queste strade obsolete, riempiendo di tristezza gente come Gillo Dorfles19. Io ritengo che incaponirsi sia del tutto lecito, ma che sarebbe meglio farlo in piena coscienza: sappiamo che insistiamo su di un campo “morto”, dunque non aspettiamoci pietà. Ma forse nemmeno è il caso di averne troppa. Il vecchio gioco è morto? Ne cominciamo un altro, nel quale da una parte operiamo su macerie che non abbiamo certo provocato noi, dall'altra ci chiediamo sospettosi quanto di realmente “necessario” vi fosse nelle tante narrative che hanno dato un aura mitica ad un processo che, guardato molto da vicino, sembra invece sottostare a dinamiche molto, ma molto, “umane”. Per partecipare al nuovo gioco occorrerà probabilmente adattarsi ad un nuovo ambiente nel quale forse non ci saranno più nemmeno i compratori, o almeno quelli disposti a sborsare le cifre pazzesche che sembrano rimanere il vero sogno di troppi “artisti”. Forse la liberazione da un tale condizionamento è ormai del tutto necessaria, un po’ per potersi permettere sogni un pochino migliori, un po’ per darsi la libertà di giocare a tutto campo, andando cioè a “vedere” anche le carte in mano all’ “establishment”. Senza demonizzarlo quindi, ma anche senza avere nulla da elemosinare nei suoi confronti. In fondo la tolleranza a giochi multipli ed intrecciati risulta, alla fin fine, la caratteristica più simpatica ed attraente dell’intero campo artistico.
Note 1 Parte di tale valore deriva dal semplice fatto che si tratta di testi “vivi”, che possono cioè “rispondere” a precise sollecitazioni e che danno quindi ad ogni interlocutore una parte attiva inconcepibile nella usuale “trasmissione” libresca. Devo peraltro confessare che un tale genere di “fioriture” le ho incontrate più spesso in gruppi di discussione riguardanti la filosofia, la letteratura o discipline molto specifiche, piuttosto che in quelli riguardanti l’arte in generale. Questi ultimi, sia quelli pubblici di “Usenet” (cfr. it.arti.varie) sia quelli legati a qualche sito particolare, sembrano sempre sul punto nel primo caso di morire d’inedia, nel secondo di trasformarsi in “chat” prive di serietà. Ciò mi ha portato a sospettare che sul “discorso intorno all’arte” possano gravare dei problemi piuttosto profondi, ma c’è anche da tenere conto che in alcuni gruppi in lingua inglese le cose sembrano andare diversamente (cfr. rec.arts.fine). Potrebbe allora trattarsi, almeno in parte, di una mera questione di “massa critica”: forse in Italia gli artisti in grado di utilizzare efficacemente Internet non hanno ancora raggiunto un numero sufficiente ad innescare determinati processi di scambio ed elaborazione. 2 E’ naturalmente difficile capire quanto e come questi nuovi spazi virtuali “riflettano” (o distorcano) la realtà effettiva dell’arte. Il fatto è che anche quest’ultima si risolve, alla fin fine, in un gioco di rappresentazioni: le categorie e le “figure” messe in moto in questo tipo di discorsi risultano sono talmente astratte da mettermi forti dubbi sulla loro effettiva corrispondenza a qualche cosa di “esterno” al discorso che le articola. 3 Spesso ammuffiti, ma è chiaro: seguendo la moda se li sono fatti costruire da qualcuno e poi rimangono lì, lettera morta quanto il pieghevole di una mostra a “buffet” esaurito. 4 E’ chiaro che il gioco che si sviluppa tra la dimensione soggettivo-esistenziale dell’artista e quella sociale-mercantile è enormemente complesso e ricco di “risonanze”, alcune delle quali potranno anche rivelarsi feconde. Tuttavia credo che in tale rapporto si annidi anche una contrapposizione insuperabile, che però mi limito a constatare senza essere in grado di prescrivere dei rimedi (in altre parole non coltivo troppe fantasie su “come il sistema dell’arte dovrebbe invece funzionare”.) L’ elusiva figura del “compratore”, per la “mungitura” del quale viene a strutturarsi l’intero sistema delle gallerie d’Arte, mi è sembrato alla fine modellabile da una funzione di ottimizzazione su tre variabili piuttosto semplici: l’opera, per essere venduta, deve “funzionare” contemporaneamente come “oggetto d’arredamento”, come “status-symbol” e come “oggetto d’investimento”. Le ultime due variabili possono anche spiegare l’incredibile docilità di tale figura alle mitologie (d’altra parte costruite espressamente a suo uso e consumo) ed ai segni esteriori dell’importanza. La “cornice” costituita dallo sfarzo nell’allestimento, dalla raffinata pubblicazione patinata, dall’eco sui media, dai nomi altisonanti, sembra in grado di fare del “contenuto” una questione assolutamente secondaria. 5 Il “ready made” è evidentemente alla portata di tutti, ma ovviamente non tutti i “ready made” trovano la stessa amorevole considerazione da parte del “mondo artistico”. Così un processo di pensiero , che originariamente presentava un proprio carattere di “necessità” filosofica, mi appare pervertito a “strumento” volto allo sfruttamento di mere posizioni di privilegio sociale. Non credo infatti che siano necessarie grandi qualità per produrre in massa le “trovatine chic” alle quali si è ridotta così tanta arte contemporanea. Ciò che appare assolutamente determinante sono invece i “contesti” in cui tali oggetti possono essere “piazzati”. 6 Poiché userò questo termine in maniera un po’ insistente, credo sia opportuno cercare di chiarire cosa intendo con esso. L’uso metaforico di questo termine matematico credo di averlo incontrato leggendo Jung (p.es.: “L'energia psichica ha gusti difficili, vuole imporre lei le sue condizioni. Per quanto grande sia l'energia presente, non possiamo utilizzarla fin quando non riusciamo a crearle un gradiente.” ). Tuttavia la risonanza che esso incontra nei miei ragionamenti deriva anche dalla mia propria pratica pittorica e propriamente dal confronto tra i differenti tipi di “attrito” che uno stesso tipo di processo “creativo” incontra sui mezzi materiali (la tela, la carta, i pennelli, l’aerografo..) e sui nuovi mezzi digitali (filtri, sovrapposizioni, dissolvenze, distorsioni e strumenti materiali “simulati”.) Nella apparente mancanza di vincoli che si sperimenta in questo secondo ambito, nella conseguente necessità di limitare lo spazio delle scelte per riuscire ad inquadrare un qualche sentiero “in salita” che dia senso e continuità ai propri sforzi espressivi, le connotazioni del concetto di “gradiente” mi appaiono del tutto appropriate: il processo di ricerca sembra “ingranare” quando imbocca una direzione lungo la quale esso sperimenta una resistenza, ovvero una sensata serie di micro-problemi (più o meno consci, più o meno espliciti) che vengono affrontati e risolti attraverso l’interazione con il mezzo, il feedback, e la coordinazione tra i diversi livelli cognitivi che vengono messi in gioco in tale attività. E’ da questa positiva sedimentazione dell’esperienza che secondo me deriva il “quid” che si avverte, in maggiore o minore misura, di fronte all’autentica differenziazione artistica, aldilà delle enormi differenze ovviamente legate alla variabilità storica dei vincoli imposti su tale tipo di attività. Riconoscere in qualche modo la presenza di questi gradienti, o percorsi di differenziazione, non significa però essere in grado di esplicitarli concettualmente. Tuttavia l’assenza di vincoli (o la radicale trasformazione degli stessi) che la presente situazione storica ha ereditato, comporta a mio parere una particolare forma di vacuità che mi risulta chiaramente avvertibile nella grande massa della produzione artistica contemporanea (alla quale peraltro non mi illudo di sfuggire.) 7 In fondo anche le tesi di Calligaro (cfr. il saggio “Tempo Fermo” nel numero precedente di questa rivista) rappresentano un tentativo di porre argine al caos, all'inflazione, alla moltiplicazione esponenziale delle idee, dei significati, dei percorsi, delle sperimentazioni, che forse però ci appaiono, nel loro insieme, inconcludenti e vane soltanto perché non siamo umanamente in grado di abbracciarne, sintetizzarne o interpolarne che una minima parte. Possiamo proiettarci, facendole nostre, su di un piccolo insieme di storie. Non di più. Se Calligaro ha ragione, attraverso il suo “setaccio” antropologico potremo liberarci, senza troppa ansia, di un bel po’ di superfluo, dedicando le nostre scarse risorse a ciò che veramente lo merita. Ma siamo sicuri che sarebbe sufficiente? 8 Questo non significa demonizzare banalmente tali “istituzioni”: come qualsiasi strutturazione complessa, risultato di processi storici che in fin dei conti non sono mai sotto il completo controllo di singoli individui, esse presentano un intreccio indipanabile di aspetti positivi (di supporto) e negativi (di costrizione.) E’ in fondo la doppia faccia tipica di qualsiasi strutturazione di poteri e come tale richiederebbe, per funzionare decentemente, atteggiamento critico e vigilanza da parte di tutti. 9 Se non altro nella distribuzione delle competenze. Per esempio, interagendo su Internet si andranno giocoforza ad allenare le proprie capacità di scrittura e sembrerà allora del tutto assurda la sola idea di commissionare testi “a pagamento” a qualche “critico d’arte”. Ma anche le capacità necessarie ad organizzare e proporre eventi espositivi complessi non sembrano tanto lontane dalle forze e competenze congiunte che già è possibile rinvenire all’interno dei gruppi artistici virtuali. 10 Quello che sembra rimanere sul campo è un gradiente che, ponendo come principale requisito l’accettazione acritica ed entusiastica di “regole del gioco” stabilite sempre altrove, sembra “allenare” principalmente all’opportunismo ed alla simulazione. In questo senso “ciò che sta in alto” spesso sembra addirittura peggio di “ciò che sta in basso”. Vi sono naturalmente moltissimi artisti che sanno in qualche modo ricrearsi degli ambiti virtuosi e riescono così a raggiungere dei risultati significativi. Ma si tratta, a mio modo di vedere di ricerche essenzialmente isolate, nelle quali ogni artista si inventa una propria personale “tradizione” che forse, per forza di cose, non potrà mai raggiungere la profondità di “imprese” che in qualche maniera riuscivano ad avvalersi del lavoro di molte generazioni. Tuttavia anche le vaste ed apparentemente idiosincrasiche esplorazioni tipiche del modernismo potrebbero in realtà risultare collegate, a qualche livello che personalmente mi è tuttora oscuro, in una trama comune. 11 Traduzione: Ciao X, potresti smetterla di far incavolare la gente ad ogni tuo intervento Ti scusi con Y per averla ferita e nelle righe che seguono insulti ancora Z dicendo "So che lei va soggetta ad accessi drammatici di questo tipo. E'qualcosa che ha a che fare con la ricerca di attenzione". Io direi che la "ricerca di attenzione" è piuttosto il tuo caso. Ho ricevuto diverse email personali da artisti che mi chiedevano di intervenire perché non sopportano più i TUOI interventi irrazionali. Solo qualche esempio: scrivi "Sono la prima ad aver organizzato una mostra totalmente sponsorizzata, senza alcun costo per l'artista". X, sveglia, noi abbiamo già tenuto numerose esibizioni senza costi per l'artista, eccettuato il trasporto delle opere, come: [..]. Naturalmente organizzare queste mostre costa un bel po' di lavoro ma gli organizzatori non vanno a raccontare a tutti centinaia di volte il gran lavoro che hanno dovuto sobbarcarsi. Scrivi: "Non mi piace il termine *collega* [o forse “compagno” artista NdT] e l'idea che questo gruppo sia stato creato per farsi degli amici. Questo implicherebbe l’appartenenza di noi tutti ad una stessa categoria, cosa che certamente non è. Ed implicherebbe sacrificare la propria professionalità artistica per amicizia con persone che nemmeno conosciamo di persona. Ed io non sono pronta ad un sacrificio così precoce nella mia carriera lucrativa.” X, non ti piacciono le idee guida del gruppo, non ti soddisfa la qualità generale dei suoi artisti, ed il fatto che le nostre esibizioni siano di solito aperte a tutti i suoi membri. Ma allora cosa ci stai a fare? Nessuno ti obbliga a “sacrificare la tua professionalità artistica”. Parlando di professionalità – ti sei lamentata per il fatto che alcuni membri non ti avevano inviato il materiale necessario, ma finora TU non mi hai inviato nulla del materiale che mi avevi molte volte promesso. Ti sei lamentata dei danni subiti nel trasporto a [..] ma scegli sempre i mezzi più economici. Se tu avessi imballato e spedito i tuoi lavori in maniera professionale, come hanno fatto altri membri, il tuo materiale non si sarebbe danneggiato. Scrivi “Penso che da un artista diplomato dovremmo attenderci standard più elevati che non da un autodidatta”. Non posso credere che tu possa prestare fede ad una tale sciocchezza. Ed inoltre vai di nuovo ad insultare artisti come A, o B, o altri giudicandoli di “seconda classe” solo perché non hanno frequentato un’accademia d’arte, mentre si tratta a mio parere di artisti affascinanti e di talento. L’artista austriaco vivente di maggior successo, ARNULF RAINER, ha abbandonato l’accademia dopo un solo (!) giorno, non è mai stato “istruito” eppure, poco tempo fa, ha avuto l’onore di una personale al MOMA di New York ed i suoi lavori si vendono a prezzi che la maggior parte degli artisti diplomati possono soltanto sognarseli. “Mi ritirerò da questo progetto dopo la mostra di [..] in settembre a causa dei miei impegni di studio ma anche perché mi preoccupa far parte di un gruppo che non mostra un livello sufficiente di professionalità. Sono sicura che questi problemi potranno essere risolti e auguro a questo progetto ogni bene”. X, ci tocca accettare il tuo ritiro ed augurarti ogni successo. Personalmente mi spiace l’esito delle recenti discussioni, io apprezzo il tuo lavoro e sono sicuro che troverai la tua strada. Forse hai ragione e semplicemente non ti si addice l’appartenere ad un gruppo, o almeno ad un gruppo che non tu non possa controllare completamente. 12 Ammesso che, ontologicamente, ve ne sia davvero una. 13 In generale è la persona che si prende carico dell’organizzazione della mostra a stabilire le modalità di partecipazione. Un aspetto importante, e in un certo modo sdrammatizzante, è costituito dal fatto che questi gruppi non possono certo assumersi la responsabilità delle singole carriere artistiche, e rimangono quindi un “extra” facoltativo rispetto agli sforzi del singolo individuo. In quest’ottica ho notato come l’idea di una “tassa d’iscrizione” sia stata subito abbandonata dopo un solo anno di sperimentazione, probabilmente per via del carico di aspettative che una tale pratica in qualche modo inevitabilmente comporta. 14Intendo in maniera autentica, non quella “simulata” di tante “operazioni” che sono nella realtà del tutto omologate al “sistema” che in un classico “gioco delle parti” fingono di contestare. 15 Il termine “comitato scientifico” che spesso si adopera per designare i selezionatori o le giurie di mostre e concorsi, mi sembra allora un autentico lapsus freudiano. 16 Il problema si ripresenta andando ad analizzare la distinzione tra i concetti di tecnica e stile. Se lo stile potrebbe essere definito come un complesso di "uniformità" che si riescono a rinvenire in un certo insieme di opere (uniformità prevalentemente formali, ovvero si tende quasi sempre ad astrarre dal messaggio complessivo il “come” della rappresentazione piuttosto che il “cosa” del rappresentato – aspetto che mi richiama la distinzione semiotica tra connotazione e denotazione) con tecnica si dovrà ovviamente indicare la maniera pratica, il processo effettivo, attraverso cui si ottengono oggetti con determinate caratteristiche. Si profila allora una polarità nota: da una parte la conoscenza astratta, o concettuale, e dall'altra quella procedurale, o algoritmica (che rappresenta, in parole povere, tutte le possibili "ricette" attraverso le quali è possibile raggiungere determinati obiettivi) Ora noi sappiamo che in natura tanto la riducibilità concettuale che quella algoritmica rappresentano delle rare eccezioni. Alcuni fenomeni presentano delle regolarità che ci permettono di afferrarli efficacemente attraverso i nostri modelli mentali o le nostre procedure operative (p.es. il moto dei pianeti). Ma nella maggior parte dei fenomeni naturali (p.es. nella dinamica dei fluidi) le complessità in gioco non sono riducibili, e quindi ci sfuggono in massima parte. In questa categoria rientrano anche le molte cose che riusciamo a fare senza sapere come: il pensare, per esempio. Dunque se la tecnica potrebbe anche essere vista come il corrispettivo dinamico (processo) di un determinato stile (sistema) occorre osservare che in molti contesti la quota “algoritmica” (cioè estraibile dal contesto, trasmissibile e riutilizzabile) può anche ridursi a zero: non sarà cioè possibile, in rapporto alle caratteristiche che in qualche modo evocano l’idea di un certo stile, fornire alcuna ricetta che possa condurre all’ottenimento sostanziale di tali caratteristiche. Allo stesso modo, mentre in alcuni artisti la tecnica può diventare un mezzo asservito all’articolazione di strutturazioni narrative superiori, e si potranno quindi vedere all’opera “ricette” di varia origine applicate con armonia ed eclettismo, in altri artisti tecnica, stile e temi narrativi appaiono intrecciati in un unico ed inestricabile processo di scoperta. A me non pare che si prefiguri qui una dicotomia quanto uno spettro continuo: l'interazione con il mezzo, il sedimentarsi degli automatismi, così come la riflessione concettuale e l’astrazione, sono fasi che ciascuno incontra all’interno del proprio processo creativo. Tuttavia la distribuzione delle criticità, le tipologie di iterazione, l'energia investita in ciascuna fase, credo possano risultare molto differenti tra un artista e l'altro, ed è interessante notare come il tema dell’insegnamento delle tecniche si colori diversamente agli estremi di questo spettro: da una parte rappresenterebbe un positivo aumento delle potenzialità espressive, dall’altro si potrebbe configurare come una sorta di “condizionamento” negativo. Ancora una volta sarà quindi da ricercarsi un punto di equilibrio tra le inscindibili funzioni di supporto e costrizione. 17 Si pensi ad esempio ai costi enormi attualmente associati alla cinematografia, che evidentemente escludono dal gioco intere “culture” potenzialmente feconde. 18 Non si butta mai via niente, è chiaro: se una specie abbandona una nicchia esaurita, altre specie meno schizzinose la rimpiazzeranno 19 Mi riferisco ad alcune risposte da lui fornite nell'intervista contenuta nel numero precedente di questa rivista.
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