Estratto da "Polemica italiana/1986-87": lettera iniziale di Stefano Zecchi.
I testi che seguono sono ripresi integralmente dai numeri 90, 92, 94 e 96 del 1986/1987 della rivista Alfabeta. Poiché il prestigioso mensile ha da tempo cessato le pubblicazioni, non ci è consentito richiedere i diritti di pubblicazione. Ce ne scusiamo, ma ritenendo i testi di grande interesse per la discussione sullo stato delle arti contemporanee, ci assumiamo la responsabilità di pubblicarli, ringraziando gli autori.
[da Alfabeta n. 90, novembre 1986, p. 37]
Carissimi Dorfles, Giovanni Anceschi, Sassi, Colonetti
Leggendo Alfabeta del mese di settembre, ho saputo che in un caldo pomeriggio di quest'estate vi siete trovati a chiacchierare al Caffè, mangiando gelati. Pur essendo da tutt'altra parte, siete riusciti a portarmi tra voi, tirandomi per quei pochi capelli che il tempo mi ha lasciato in testa. Così, devo anch'io dire qualcosa anche se non mi sento a mio agio, perché il vostro assomiglia un po' a un ritrovo di reduci che se la contano per ricordare i bei tempi passati. Le battaglie più eccitanti, mi par di capire, erano quelle delle Facoltà di Architettura tra gli anni '60-70. Era proprio vero che la parola magica design-progetto serviva allora per cambiare il mondo. Vedo che la nostalgia è tanta per quello che si voleva fare e non si è poi fatto. C'e disinteresse, dite, per il design sodale, comunitario; non si pensa a uniformare le scritte delle strade, della segnaletica, a curare l'arredo urbano. Non ci si meravigli allora se le cartacce sono per terra e se persone cenciose ingombrano i marciapiedi.
Insomma un bel discorso al tavolino del Caffè; tanti ricordi, tanti desideri; il caldo fa scivolare le parole, non ci sono incertezze; col sole che c'è, nemmeno l'ombra di un dubbio. Si sentono lamenti sui ritardi dei treni, sulle tasse e sulle Usl, perché i miei amici non possono lamentarsi dell'arredo urbano, della qualità della segnaletica stradale? Fin qui tutto scorre tranquillo, e io me ne stavo tranquillo dov'ero.
Poi però deve essere successo qualcosa: forse sarà caduto per terra il gelato a Colonetti, a Dorfles avranno portato il conto..., non si spiega altrimenti la stizza che monta improvvisa.
Ma perché, dicono i miei amici un po' concitati, design e progetto sono parole che si possono solo bisbigliare quasi fossero sconce, perché le piazze devono fare schifo, perché l'arredo urbano si è fermato a quello che era stato fatto vent'anni fa per la metropolitana. La colpa di tutto questo, dicono sempre più seccati guardando il gelato che si squaglia e il conto, che sta sul tavolino, è che manca una cultura adeguata, manca una teoria del progetto. Nella gloriosa Milano dello styling la cattedra di Estetica non dice niente di tutto questo. E avete proprio ragione, lo so bene perché dalla cattedra di Estetica dell'Università di Milano insegno io.
Sarà che essendo veneziano ho un'altra idea della storia dell'arte, sarà che ho soldi a sufficienza per spostarmi a Milano col taxi, ma devo proprio dire che non mi sono mai appassionato degli indicatori stradali interni alla metropolitana, anche se sono realizzati da Bob Noorda. Potevo benissimo starmene zitto, pur essendo adesso tra voi, perché, per quel che mi riguarda, potete appassionarvi di quel che vi pare. Ma siccome mi sembra che per voi tra un bel termosifone di un noto designer e un quadro di Van Gogh non ci sia differenza, ecco, vorrei solo dirvi che io a quella differenza ci tengo, e se un mio studente non la vede, lo boccio.
Per fortuna è passato quel ventennio in cui l'Impero della Semiotica e il passaggio del bulldozer marxista sbeffeggiavano la scrittura di una poesia (a meno che non fosse antipoesia) ed emarginavano qualsiasi filosofia del fondamento o qualsiasi ermeneutica. Davanti al gelato voi ricordavate con emozione le premesse di quel ventennio, e, anche se -come si dice - la storia non si ripete, trovo sempre un po' rischioso confondere un termosifone con un quadro di Van Gogh. Oggi almeno si può continuare a leggere poesia e non fa scandalo pensare sui testi di Hussert o di Heidegger. Questo significherà molto poco per qualcuno, ma a me serve per spiegare la differenza che c'e tra le poesie di Lamberto Pignotti, che tu caro Dorfles mi avevi fatto conoscere quando ero un tuo studente alla Statale, e una poesia di Novalis.
Menomale che non tutte le colpe sono della cattedra di Estetica. II guaio è, dite tra voi, che manca a Milano la cattedra di Semiotica. E anche questo è vero. Ma sinceramente non mi sembra così grave se i due più grandi semiologi del mondo, Roland Barthes e Umberto Eco, sono i primi a non dare gran peso alla semiotica. L'uno, per parlare di ciò che gli sta più a cuore, l'amore, ha detto che la semiotica non serve a niente, l'altro (lo voglia o no) ha affidato la sua immortalità sul pianeta terra ad un romanzo di successo, da cui si farà un film di cassetta.
Scusandomi cari amici se non sono riuscito a scherzare, vi pregherei, adesso che arriva l'inverno, di non prendervela con la mia cattedra di Estetica, quando vi capiterà di sfiorare il termosifone e di pensare che siete in pochi a trovargli la stessa dignità di un quadro di Van Gogh.
Con affetto,
Stefano Zecchi