domenica, 17 giugno 2007

T R Y I N G    T O    A B S T R A C T

 

 

 


 

 

 

T H E    S K E P T I C A L

 


L'ultimo scambio (da sempre difficile) con Sannelli mi ha fornito il termine sul quale ritornare: “giustizia estetica”. Una contraddizione in termini o un ideale da perseguire, sebbene ancora sostanzialmente “impensabile”? Fino ad oggi, a parte le fulminazioni sulla via di Damasco, ogni posizione si è sempre definita saldamente nella convinzione che il proprio corpo gli comunicasse invariabilmente delle “verità estetiche” meritevoli di affermazione simbolica. Non si potrebbe invece provare ad “astrarre” un po' di più da queste percezioni, alle quali siamo tutti comprensibilmente affezionatissimi dato che rappresentano, in qualche modo, la “cifra” riepilogativa di tutte le nostre vicende?
Credo che quello che possiamo arrivare a riconoscere inter-soggettivamente in un'opera d'arte sia qualcosa di abbastanza diverso dal suo “valore”, sia esso inteso (ad un estremo) in senso economico oppure (all'altro estremo) in senso “cosmico”. Da una parte la presenza di ampie coordinazioni interne che si esprimono nello stile, dall'altra come l'opera si situi nella logica di campo della quale è espressione. Possiamo cioè arrivare, più o meno lentamente, ad un accordo sulla circostanza che un'opera d'arte incorpori in maggiore o minore misura un lungo lavoro di “coordinazioni interne” (oscuramente sedimentate nel corpo dell'artista attraverso la sua pratica) - in contrapposizione all'idea, o semplice trovata, di carattere prevalentemente intellettuale. Questo ha infatti delle evidenti ripercussioni sulla riproducibilità, o meglio, per evitare equivoci, “emulabilità” dell'opera: il ready-made, per quanto operazione in origine intellettualmente geniale, è ovviamente operazione alla portata di tutti, come anche lo schizzo informale (purché si situi abbastanza lontano dalla figurazione da non fare sospettare “la presenza di ampie goffaggini interne”) comprendendo anche lo “scatto fotografico” felice. Ma è altresì evidente che in presenza di affetti travolgenti, la minima opera “testimoniale” del nostro beniamino ci risulterà più cara e piena di risonanze dello strenuo e monumentale sforzo di un estraneo. Dall'altro lato, si apre invece un'estenuante analisi dello “spazio dei possibili” delineato dalle logiche di campo, ovvero la ricostruzione, potenzialmente “senza fondo”, delle mosse e contromosse alle quali le singole opere spesso, ma in diversa misura, rispondono. Si tratterà allora di vedere in quale misura sia ragionevole dissipare vita "vera" (cioé la propria) alla ricostruzione fantasmatica di vita altrui. Questi due lati, comunque, per quanto complementari, dovrebbero entrambi informarsi a criteri di razionalità. Tutt'altra faccenda è produrre dell'arte ulteriore (in forma di letteratura) a partire dall'arte, ovvero cercare di tradurre, o amplificare, o trasformare, l'effetto dell'opera, che è quanto la “critica” normalmente fa (come per fornirci un modello di cosa si dovrebbe provare). Un'operazione che per sua natura non dovrebbe consentire autoritarismi di sorta (neppure "affettivi") ma semmai chiamare ad una estrema gentilezza, conscia del carattere relativo ed opzionale di un simile tentativo.